Monday, September 12, 2005


A private Cannes - part five

Per quest’anno non ci stavamo dedicando a nessuno sport, invece. Seguii con lo sguardo il Sylpa, mentre si allontanava dal Port Vieux e dai miei ricordi. Erano solo le undici meno un quarto. Mi alzai dal tavolino all’aperto, raccogliendo fogli sparsi dei giornali. Mi diressi verso il centro. La Marina Vecchia cominciava a popolarsi di allestitori di stands per il Salon Nautique, i primi espositori cominciavano a far arrivare gli scafi da mettere in mostra. La settimana centrale di Settembre era un incubo per la viabilità sul Quai de Saint Pierre e la Promenade. Già si era creato un bell’ingorgo all’altezza del Quai Laubeuf per consentire il transito di autoarticolato che cercava di manovrare con un Pershing a rimorchio.

Mi fermai, per la centesima volta, a Le Jardin de Laura in Rue Felix Faure, uno dei negozi di artigianato provenzale più carini di Cannes. Non riuscii a trattenermi dall’acquistare un set di tovagliette e tovaglioli da colazione, anche guidato nella scelta da una nuova commessa, mai vista prima, ma molto charmant. Mi infilai, nella mia passeggiata, su per la salita di Rue Saint Antoine, nel cuore della città vecchia. Il centro era pieno di gente, per lo più turisti abbastanza attempati con provenienze nord europee ma riconobbi anche qualche famigliola tipicamente italiana. I tavolini sul marciapiede del Bar Le Saint Antoine erano strapieni. Mi lasciai il Manoir sulla destra e il nostro ristorantino preferito Le Gavroche sulla sinistra, continuando la salita.

Le Gavroche era una piccola perla della ristorazione in Cannes. Lo avevamo scoperto un sera per caso Alain ed io in una delle solite passeggiate downtown. Dopo qualche classica fregatura da turisti sprovveduti in giro per posti eccessivamente turistici della cittadina, eravamo molto poco propensi a farci spennare come polli per ottenere in cambio pesce congelato e dessert della Bindi (!). A parte le due escursioni alla Palme d’Or rigorosamente sponsorizzate dal Dottor Vanonì, sinceramente, il panorama gastronomico di Cannes, lasciava a desiderare per chi, come noi, non posteva permettersi abitualmente world top class restaurants. Era decisamente più gratificante comprare gli ingredienti sempre freschissimi al Forville o al Casinò Supermarchè sul Boulevard D’Alsace e dedicarci noi stessi alla preparazione. A me non dispiaceva pasticciare in cucina ed Alain era, tutto sommato, una buona forchetta.
Le Gavroche è un piccolo ristorante in Petit Rue Saint Antoine, con un pugno di tavolini stretti sul terrazzino ed ancora meno all’interno del locale stesso, occupato per lo più dalla cucina, anch’essa minuscola e dal bancone del bar. Quella sera ci accolse la signora Renate, moglie del magico Romaine Gay, Chef e proprietario. Ci fece accomodare con un sorriso accattivante in uno dei tavolini che guardano sulla grande Rue Saint Antoine che, alle nove di quella sera, sembrava, per densità di persone al metro quadro, una succursale della metropolitana di Tokio. Il foie gras con la salsa al rabarbaro, le conchiglie Saint-Jacques al forno con erbe provenzali, i gamberoni speziati con riso allo zafferano e una mousse au chocolat superba, ci fecero innamorare del posto. Renate, dopo il caffè, si sedette al nostro tavolo per raccogliere le nostre impressioni e omaggiarci di un ottimo Calvados Clos Minotte Pays d’Auge imbottigliato nel 1986. Al Gavroche tornavamo spesso, almeno una volta alla settimana, durante la nostra villeggiatura.

Il posto fu anche il set per un’altra avventura estiva veramente memorabile, di cui ci rendemmo protagonisti. Per questo anche, lo porto nel cuore. Settembre si avviava alla conclusione, così come le nostre vacanze. Credo fosse il 1996. Da lì a tre giorni saremmo rientrati nel grigio cittadino e nei soliti problemi di traffico e di lavoro. L’ultima settimana era sempre un po’... sospesa, la fine preannunciata del relax ci portava ad essere un po’ più eccessivi, in tutto. Quella sera eravamo già alla seconda bottiglia di rosso Chateau de Berne - Cotes de Provence Cuvee des Oliviers. Della prima avevamo commentato, ameni, la nota speziata di zenzero ed origano, il retrogusto di funghi freschi e more, l’ottimo melange degli uvaggi Grenache Carignan e Syrah. Avevamo davanti delle superbe costolette di agnello al timo e ci godevamo il passeggio, piuttosto contenuto in termini di affollamento. Già da inizio serata, non avevamo potuto non notare, data anche la reale prossimità fisica, le due signore che sedevano al tavolo di fianco. Due signore, sole, un’età approssimativa intorno ai quarantacinque. Ipergriffate sì, ma senza dare l’idea della salumiera in vacanza, che si mette addosso tutto quello che possiede, gioielleria di Bulgari inclusa, e che finisce per sembrare una matrona di Botero deambulante in versione kitsch. Queste erano un raro esempio di opulenza di classe. I tavoli erano disposti in un modo da far si che ci trovassimo praticamente fianco a fianco, ad una distanza di poco meno di un metro. Alain sedeva di fianco ad una donna molto magra, biondo slavato, dai lineamenti volitivi e gli occhi mobilissimi. Vestiva un completo giacca pantalone di lino bianco grezzo, leggero e trasparente, sabot Gucci, foulard e borsa a quadri tartan dai colori inconfondibilmente Burberry. Fumava una lunga sigaretta bruna, More, e sorseggiava champagne freddo dal flutè appannato. Conversava, ridendo, amabilmente, con l’altra commensale, che sedeva vicino a me. Questa era una donna un po’ più in forme, fasciata in un vestito aderente color tabacco con una scollatura non eccessiva che tuttavia metteva in risalto un paio di seni notevoli. Il decolletè era impreziosito da un solitario di una certa caratura. Bruna, capelli castani, leggermente sfumati sul rosso, un paio di occhiali dalla montatura trasparente. Una bella bocca tonda, dalle labbra piene. Parlavano un Inglese molto americano.
Difficile ignorarsi a vicenda, pressochè impossibile, date le reciproche posizioni. Già più volte, durante la cena, gli sguardi di tutti e quattro si erano intrecciati. Mezzi sorrisi, lievi imbarazzi, qualche commento delle signore circa il nostro aspetto che comprese un “pretty good looking guys” ed anche un “gorgeous”, ma credo, questo, riferito ai pettorali di Alain che si delineavano netti sotto la polo Ralph Lauren bianca. Dai, anche noi facevamo il nostro effetto, con una bella abbronzatura, in jeans e scarpe da barca. Un po’ gli emuli di Tom Selleck nelle prime serie di Magnum P.I., ci mancavano solo i baffi! Renate si prodigò molto discretamente nel farci rompere il ghiaccio, trattandoci deliberatamente con la familiarità elegante, riservata agli abituée. Il ghiaccio si ruppe definitivamente quando al loro tavolo arrivò una torta con le candeline e la dama in bianco attaccò un happy birthday insieme a Renate, seguita, per l’occasione, dal marito Romaine, uscito dalla cucina. La sua compagna fu piacevolmente sorpresa, evidentemente non si aspettava una festicciola così improvvisata. Ci volle poco perchè ci unissimo ai festeggiamenti ed Alain ordinò un’altra bottiglia di champagne. Amy Colligan e Vicky Hilliard erano due signore di Eastport, Maine, Stati Uniti. In vacanza. Di loro non dissero molto, erano in Francia per diporto, sole, il compleanno era quello di Amy. Quanti anni ho indovinatelo voi, ci disse, ma, ad onor del vero, non glielo avevamo proprio chiesto. Erano state già a Parigi, Saint Malo, Nantes, La Rochelle, Bordeaux, eccetera, eccetera, in pratica un “counter-clock-wise tour of the country”. Erano molto più interessate a quello che avevamo noi da dire, riguardo a noi stessi. Nella narrazione, un po’ addomesticata, arrivammo più o meno ai giorni nostri quando Renate portò in tavola “café e calvà” per tutti. Io, con la scusa di andare in bagno, approffittai anche per pagare il conto di tutti e quattro. Quando tornai al tavolo Alain si stava organizzando per il proseguimento della serata. Amy e Vicky avevano voglia di divertirsi un po’, magari andare a ballare o in un posto con un po’ di musica. Rimasero di stucco quando, dopo aver chiesto a Renate il conto, si sentirono rispondere che “these two gentleman were pleased to offer You the supper and I’ve been pleased to offer You the dessert”. Seguirono brevi proteste poco convinte ma vedevo lontano un miglio che il gesto le aveva impressionate positivamente.
Dopo vari “Au revoir” e “Bon nuit”, i “Merci, Merci” e i complimenti di rito per la splendida cena a Romaine, ci ritrovammo in strada con Vicky ed Amy, ansiose di volerci offrire almeno qualcosa da bere e di andare a ballare da qualche parte.
Un altro punto debole di Cannes sono i locali da ballo, le discoteche o i disco-pub. Personalmente in tutti questi anni non ne ho trovato uno degno di essere ricordato. Finimmo in una specie di pseudo festa cubana nei locali del Casinò, sulla Croisette. L’atmosfera era da night di terz’ordine, davvero. Gli ospiti, oltre a noi, erano un gruppo di canadesi sbarcati per la serata da una nave crociera, in buona parte asiatici, vestiti come venditori di auto di seconda mano di Detroit con le signore al seguito. La musica era decente ma i mojitos serviti tiepidi in bicchieri alti e stretti a quasi quindicimila lire, mi fecero veramente incazzare. La serata era sponsorizzata dal Rum Havana Club, ma tutto il rum che veniva servito al bar era un carta blanca abbastanza scadente. Ciò nonostante Amy e Vicky sembravano divertirsi come liceali al ballo della scuola, ci trascinavano con loro sulla pista, abbracciandoci in balli latini e hit internazionali o al bar, dove Vicky, almeno aveva già ordinato almeno tre intrugli diversi. Mi lasciò meta dell’ultimo, un tentativo di frozen margarita alla fragola imbevibile, almeno secondo i miei standard. Anche Alain dava segni di insofferenza.
Verso mezzanotte e mezza riuscimmo ad uscire dal locale, un po’ storditi, con Vicky al mio braccio e Amy aggrappata ad Alain. Le signore erano alloggiate al Le Mediteranée e ci offrimmo di accompagnarle a piedi verso la loro destinazione. Vicky mi teneva un braccio intorno alla vita ed io le cingevo il mio al collo, nella tipica posa delle coppiette. Parlavamo di frivolezze, lei già abbastanza brilla che perdeva il sabot e tornava indietro ridendo, tornando poi ad abbracciarmi. Ci fermavamo di tanto in tanto, ad aspettare Alain ed Amy. Come sempre Alain riusciva ad arrivare ad un grado maggiore di confidenza con le donne, sempre prima di me. Già due volte lo avevo sorpreso con la lingua nella bocca di Amy, abbracciati contro il muretto della passeggiata mare. A Vichy la cosa non era sfuggita.

- Don’t you like me?
- I do. Quite a lot.
- It doesn’t seem…
- What do you mean?
- …
- Should I kiss you too?
- This could help to raise my trust in your saying…

La guardai negli occhi, chiari e bellissimi. Adesso notavo sotto l’abbronzatura le lievi rughe intorno a questi. Le carezzai il viso. La trovavo bellissima. Mi mise le braccia intorno al collo e le nostre bocche si unirono. Sapeva di menta e tabacco. Il suo profumo mi avvolse. Noà di Cacharel. La sua lingua che mi sembrava sottile ed aguzza serpeggiava sulla mia. Il ghiaccio si era rotto del tutto.
Il bar dell’Hotel, le Portissol, era praticamente deserto, quasi giunto all’ora di chiusura. Prendemmo posto ad un tavolino. Ancora chiacchere frivole con un Alain in piena forma che raccontava aneddoti e storielle divertentissime. Ordinai un Laphroaig con acqua ghiacciata a parte, giusto per la compagnia. Amy e Vicky riuscirono finalmente ad avere un daiquiri come dio comandava e Alain volle ancora un calice di champagne. Eravamo tutti ancori molto gaii, sovraeccitati. Era buffo come tutti rimanessimo, pur nell’età della maturità, chi più chi meno, adolescenti senza speranze. Guardavo queste donne, che avrebbero potuto essere quasi le nostre madri, con i visi minacciati dalle prime rughe non più solo d’espressione, con le vene delle mani in rilievo, comportarsi come ragazzine al primo appuntamento. Forse qualcuno vive sempre con il bisogno di questi stimoli, di voler piacere, di essere apprezzato, di sentire l’adrenalina di un incontro, di viverne la preparazione, rifiutando di spegnersi in routines sterili o nell’abitudine di gesti consueti. Oramai Amy ed Alain non avevano più freni inibitori, il Portissol del resto era deserto, eccezion fatta che per il barman, intento alle pulizie del piano di lavoro. Si scambiavano pubbliche effusioni senza alcun ritegno. Poi, con una naturalezza disarmante, si alzarono, si congedarono e sparirono verso la hall, diretti senza alcun dubbio verso la camera di Amy. La conversazione subì uno stop forzato. Vicky ed io ci guardammo negli occhi, qualche secondo, con un po’ di imbarazzo reciproco. Fu poi lei a prendere l’iniziativa, si sporse verso di me sussurrando.

- Do you want to sleep with me?
- Yes…
- Come with me.

Lasciai il mio passaporto ad un concierge impegnato a battere tasti sulla tastiera di un computer, che mi dedicò solo una fuggevole occhiata, mentre riponeva il mio documento nella nicchia dalle quale aveva tolto la chiave della camera di Vicky. La camera era tutta giocata sui toni dei rossi e degli arancioni. Un letto king-size con un finto baldacchino, tende e copriletti con fantasie provenzali, arance e limoni, foglie d’olivo. Vichy sparì nel bagno, dicendomi che sarebbe stata di ritorno subito e di prendere qualcosa da bere dal frigo-bar. Presi un acqua minerale gasata. Sentivo scorrere l’acqua della doccia. Istintivamente mi annusai. Forse ne avevo bisogno anch’io? Mi tranquillizzai. Ancora le note fresche di Acqua di Giò rimanevano attaccate alla polo e alla pelle. Sintonizzai la radio dal telecomando del televisore, su una frequenza che trasmetteva musica classica. Finalmente Vichy riemerse dal bagno, con la pelle umida, avvolta in un asciugamano. Si sedette accanto a me sul letto, con un tubetto di crema idratante in mano.

- Can you help me?
- Sure.

Si sdraiò a pancia in giù sul letto, aprendo l’asciugamano. La sua magrezza colpiva. Aveva un bel corpo, comunque, asciutto e tonico. Una abbronzatura uniforme, interrotta solo da un triangolo più chiaro sulle natiche, il segno dello slip. Un bel culetto per una over quaranta, sodo e pieno. Cominciai a spalmarle la crema sulle spalle, sulla schiena. L’erezione non tardò a sopraggiungere. Le spalmavo la crema a due mani, sulle natiche, con movimenti rotatori opposti che, alternativamente, le scoprivano e coprivano la fessura rosea del sesso e l’area scura dell’ano. Il mio pene pulsava stretto nei boxer. Le gambe di Vicky erano lunghe ed affusolate , con una bella caviglia e delle dita dei piedi aggrazziate. Forse qualche chilo in più non avrebbe guastato, addolcendo un po’ le eccessive spigolosità. Vicky si voltò, mostrandomi due seni appena lievemente cadenti, dai capezzoli rosa e dalle grandi areole. La pelle della pancia lievemente cascante, sopra degli addominali tuttavia tonici e delineati. I peli del pube erano chiari, rasati in una strana foggia, a disegnare una specie di saetta. Le spalmai diligentemente la crema, sulle spalle, sui seni, sulla pancia, giù fino ai piedi. Si mise a sedere, sfilandomi la polo. Le nostre bocche ancora una dentro l’altra, la sua lingua serpentina che mi accarezzava il palato. Esplorai con un dito la cavità del suo sesso, soffermandomi a stuzzicarle il clitoride e penetrando nella vagina che mi parve stranamente stretta in una donna già matura. Percepivo l’abbondanza del suo umore, la sua crescente eccitazione. I suoi giri di lingua diventavano più veloci, il suo abbraccio più stretto. Accompagnava i movimenti del mio dito dentro di lei, spingendo il bacino contro la mia mano. La penetrai con due dita, emise un gemito e mi morse con forza il lobo dell’orecchio. La masturbai in questo modo per un paio di minuti fino a quande raggiunse l’orgasmo, stringendo la mia mano tra le cosce e inclinando la testa all’indietro, tirando la mia verso il suo collo. Crollammo sul letto, io sopra di lei. Mi liberai dei jeans e dei boxer, liberando la mia verga pulsante. Le leccai i seni, indugiando nel mordicchiarle i capezzoli e infilai la lingua nelle pieghe del suo sesso. Sapeva di pulito, un po’ asettica, un gusto di sapone. Con la solita tecnica alternai colpi di lingua a colpi di pollice sul clitoride, cosa la fece partire. Cercava di soffocare gli ansimi e i gemiti, senza troppo successo. Cercai di nuovo la sua bocca, sopra di lei. Data la posizione, naturalmente il mio pene stava infilandosi nella sua fessura baganata. Mi bloccò dolcemente, con una mano, rovistando con l’altra dentro ad cesto di pourpourri sul comodino. Tirò fuori la confezione argentea di un condom. Giusto. Mi infilai il preservativo e tornai sopra di lei. Accompagnò il mio pene dentro di lei, in quella fessura che continuava a sembrarmi tutto sommato stretta. La penetrai piano, continuando a baciarla, facendo scorrere il pene per tutta la sua lunghezza dentro e fuori, lentamente. Il ritmo aumentò, accompagnava i miei colpi ritmati con ansimi e rotazioni del bacino. Sembravano gli urletti della Seles quando colpiva la palla. Vicky teneva gli occhi chiusi e si mordeva il labbro inferiore. Continuai a penetrarla in questa posizione per quasi dieci minuti, senza riuscire a raggiungere l’orgasmo, insensibilità dovuta in gran parte all’amico di lattice. La girai di tergo, afferrandola per le natiche. Le infilai il pene gonfio affondandolo nella vagina tumida e bagnata. Vicky affondò la faccia nel cuscino, emettendo mugolii soffocati. La penetravo con forza, sudato, affondando ogni colpo. Vicky godeva di un orgasmo dietro l’altro. Le venni dentro dopo pochi minuti, crollandole addosso sfinito. Giacevamo sul letto uno accanto all’altra, scambiandoci carezze. Mi sfilai il preservativo pieno del mio seme. Feci per annodarlo, poi mi prese un’altra delle mie fissazioni alla quale non resistetti a dar segito, incurante delle conseguenze, alla peggio mi avrebbe buttato fuori.

- Close your eyes Vicky
- Why?
- Close your eyes...

Chiuse gli occhi.

- Eat me...

Le versai il contenuto del preservativo sulle labbra schiuse. Vicky si passò la lingua sulle labbra, raccogliendo parte del seme che le stava scivolando lungo il mento.

- Ah, my little piggy boy, you like this kind of things...

E si girò a baciarmi, mescolando la sua lingua con la mia. Mi addormentai, quasi di colpo, al suo fianco. La mattina fui svegliato dalla voce di una Vicky già vestita che accoglieva il carrello della colazione. Un solerte cameriere apparecchiò il tavolino sul terrazzino e si congedò.

- Take a shower, I’ll wait for you.

Lasciai scorrere l’acqua sulle spalle, sulla schiena. La sensazione di indolenzimento sparì. La giornata era splendida, un sole caldo ed un cielo azzurro terso mi accolsero nell’uscire sul balconcino e nel prendere posto di fronte a Vicky che mi sorrideva da dietro una copia dell’ Herald Tribune fresca di stampa e una nuvoletta di fumo azzurrognolo della More. Il profilo netto delle Esterel mountains si stagliava all’orizzonte. Caffè americano, succo di pompelmo e croissant caldi furono la nostra colazione. Mi parlò un po’ di sè, dei programmi suoi e di Amy per i prossimi giorni. Sarebbero partite l’indomani, oggi si sarebbero fermate al mare, avevano lettini ed ombrellone all’Okay Beach. Mi invitò a stare con loro per la giornata, ma declinai, avevamo già in progetto un giretto a Grasse. Ci salutammo. Continuava a sembrarmi bellissima. Glielo dissi. Il suo sorriso si allargò. Le chiesi un numero, un indirizzo, le lasciai il mio. Ma mi rispose di lasciar fare alla vita. La baciai sulla bocca, sulla soglia, a lungo, prima di non vederla mai più.

Alain mi aspettava nella hall. Narrandomi le performances atletiche sue e di Amy, con la solita dovizia di particolari scabrosi e ridacchiando, ci buttammo nel traffico di gente e veicoli del Boulevard Jean Hibert, diretti verso casa e verso la penultima vera giornata di vacanze.
Anche per quell’anno, il 1998, eravamo giunti quasi al termine delle vacanze, ma quell’anno il periodo estivo non si legò a nessun evento degno di essere ricordato. Continuammo con i nostri ritmi lenti, quasi “da pensionati”, la colazione, la spesa, il mare. Fu però l’ultimo anno di vacanze insieme a Cannes. Alain si trasferì a Parigi per lavoro l’anno successivo ed anch’io, nel gennaio del 1999 cambiai azienda, cosa che mi portò a fare il pendolare tra Milano e l’Olanda. Nonostante i tentativi di evitarlo, i giuramenti di non farlo, ci siamo, purtroppo, un po’ persi di vista. Here’s to you Billi & Alain.

Monday, September 05, 2005


A private Cannes - part four
Le ragazze arrivarono con Alain circa quaranta minuti più tardi, si tolsero le giacche umide e si acclimatarono a poco a poco. Offrimmo loro un calice di champagne e le invitammo ad accomodarsi. Sophie si era messa una gonna, probabilmente l’unica che si era portata appresso ed una blusa arancione troppo abbondante, forse appartenente alla sorella. Un paio di ballerine rosse completavano il patchwork. Si era anche data una bella passata di rossetto e un ombretto azzurro troppo pesante. Era...goffa, come una non abituata a vestirsi per una serata. La preferivo decisamente in versione sportiva. Anne indossava un paio di pantoloni neri lucidi e una maglia bianca a manica lunga. Un rosso cupo colorava anche le sue labbra.

La conversazione non decollava, Anne era praticamente muta, Sophie evidentemente un po’ imbarazzata, fuori dal solito ambiente. Forse avevamo un po’ esagerato con la messa in scena, qua si rischiava di finire a fare i “bagalun del luster”. La maison Vanonì già era notevole. Un luminosissimo appartamento al terzo e penultimo piano di una piccola palazzina di otto unità abitative complessive. Uno splendido giardino a macchia mediterranea, impreziosito da una piccola piscina ed una terrazza che si affacciava sul blu del mare di Cannes Ouest. Noi poi avevamo tirato fuori tutto l’armamentario, posateria in argento, calici in cristallo, vini pregiati.

L’antipasto venne accolto bene, Anne e Sophie si complimentarono, solite ovvietà sui maschietti che non cucinano, gli Italiani poi, e via così. Era Sophie più che altro a tenere viva la conversazione. Laureata in Legge alla Sorbona stava seguendo il suo praticantato presso un notaio di Saint Nazaire. Anne lavorava in una banca d’affari, elaborando modelli matematici, in Lussemburgo. L’atmosfera cominciava ad essere più rilassata e le ragazze parvero sciogliersi un po’. Raccontarono della loro famiglia, in Bretagna, dei loro cavalli e delle vacanze. Aspettando il pesce, ci alzammo da tavola e Alain approfittò per mostrare il resto della casa, seguito da due sorelle molto ammirate. La prima bottiglia era finita. Le ragazze però continuavano a mantenere le distanze, più a loro agio ma molto molto abbottonate, non davano nessun segnale di disponibilità ad un approccio più fisico. Niente dita che si accarezzano i capelli, niente protensione del corpo verso l’interlocutore, niete ricerca del contatto fisico. Sorrisi misurati, gestualità composta, distanze spaziali rigorosamente mantenute.

Servii il pesce io stesso, avvolto in un buffo grembiule blu da oste trentino, che, guarda caso, riportava l’effigie di una mela golden giallissima e la scritta “I ♥ Marlene”. Le ragazze, intanto si offrirono di ritirare i piatti sporchi ed Alain serviva altro vino. L’atmosfera era un pochino più conviviale, qualche risatina in più alle battute di Alain che chiaccherava amabilmente in Francese. Io ero un po’ tagliato fuori, causa totale ignoranza della lingua, per cui la situazione intorno al tavolo era quella di due persone che conversavano ora amabilmente e di due commensali che portavano cibo e vino alla bocca, scambiandosi qualche rara frase in Inglese.

Giunti al dessert, una mousse al cioccolato, Alain e Sophie erano decisamente sciolti, avevano avvicinato le sedie e si erano inoltrati in una qualche discussione intorno alla realtà del degrado di alcuni quartieri cittadini di Cannes. Io ed Anne arrancavamo intorno a discorsi sulle reciproche professioni e al pessimo clima del Lussemburgo. Alain si offrì di preparare il caffè, aiutato da Sophie, io ritiravo piatti e posate da infilare in lavatrice. Anne volle uscire in terrazza e io la seguii. Il cielo era ancora nuvoloso ma la pioggia era cessata ed anche il vento si era calmato. Anne fece qualche commento sulla splendida vista che si godeva dalla terrazza, io ancora qualche banalità sul tempo piovoso. Disse che in effetti faceva un po’ freschino. Me ne accorsi anch’io dalla forma evidente dei suoi capezzoli le cui forme adesso trasparivano evidenti sotto la maglia leggera di cotone bianco. Non mi stupii che non portasse il reggiseno, con una prima taglia scarsa probabilmente non ne aveva bisogno. Le offrii il mio maglioncino di cotone che le poggiai sulle spalle. I suoi capelli avevano una fragranza di cocco e menta, un po’ stucchevole. Mi ringraziò con un sorriso. La osservavo meglio adesso, notando le leggere efelidi sul naso un po’ tozzo e il sedere davvero piatto e basso, gli occhi grigi un po’ spenti, con uno sguardo un po’... bovino, diremmo noi, anche se forse questa impressione era più dovuta alla leggera sporgenza degli stessi. Era decisamente insignificante, nemmeno particolarmente simpatica. Mi chiedevo... no, senza supponenza o narcisismo eccessivo, mi chiedevo, così, spassionatamente, come mai queste ragazze non provassero nemmeno un briciolo di attrazione fisica nei nostri confronti. Alain ed io eravamo abituati alle attenzioni delle ragazze, anche di quelle più carine. A volte consapevolmente o meno, approfittavamo di questa condizione privilegiata e finivamo per avere di noi stessi un giudizio che tendeva a sopravvalutarci. D’altro canto, a onor del vero, eravamo giovani uomini atletici, bon vivant, brillanti pure; insomma persone alle quali non mancavano mai occasioni galanti e un invidiabile entourage di amicizie femminili. Mi chiedevo come queste due sorelle, nell’insieme abbastanza insignificanti e sciatte, non fossero, anche loro, desiderose di approfondire la nostra conoscenza, di approfittare di una simile fortuna, l’avere due ragazzi niente male che da giorni stavano loro appresso con evidenti intenzioni di intrecciare una relazione estiva.

Alain versò il caffè fumante in deliziose tazzine di Limoges. La conversazione si spostò su argomenti più privati, legami passati, aspirazioni personali e professionali, progetti per il prossimo futuro. Saltò finalmente fuori che nessuna delle due era al momento fidanzata ma che lo erano state in passato e che quindi, almeno secondo Alain e me, nulla ostava a qualche approccio più audace. Ancora chiacchere, chiacchere, seduti sul divano stile impero a righe azzurre e oro. Un album di Phil Collins fu d’aiuto ad accorciare le distanze, Alain prese la palla al balzo e sulle note di “In the air tonight” allacciò la vita di Sophie, trascinandola in un lento cheek-to-cheek al centro della sala. Erano un po’ buffi, il gigante e la bambina, più che un cheek-to-cheek era un cheek-to-stomach, ma nel complesso non era uno spettacolo del tutto improponibile. Altri brani da diversi CD si alternavano nella modalità shuffle del lettore Bang&Olufsen a parete. Il salone era pieno di melodie lente e luci soffuse. Offrii un Calvados ad Anne, che declinò e quindi la invitai a mia volta a ballare. Decisi che a quel punto mi sarei giocato le mie carte, tipo alla “o la va o la spacca”. Erano già le 23:00, la serata volgeva alla conclusione. La abbracciai anch’io in un altro lentone, “Careless Whisper” degli Wham, ma la situazione mi pareva paradossale. Non ballavo un lento dal tempo delle medie con colonna sonora dei tempi delle medie e la cosa mi sembrava alquanto sforzata. Alain e Sophie, intanto erano passati a stuzzicarsi a vicenda, lei gli dava dei colpetti nelle costole ogni volta che lui le faceva la mano morta, posandogliela sul sedere, risate, battute, finte proteste, adesso basta, no dai vieni qua. Le cose stavano prendendo una piega favorevole.

Anne mi si appoggiò letteralmente addosso, piegò la testa sulla mia spalla e allacciò le sue braccia intorno al mio collo. Io le tenevo le mani sui fianchi, ma francamente mi sembrava di reggere un sacco di biancheria. Alain e Sophie intanto ruzzolarono rincorrendosi verso la camera da letto grande, tirandosi cuscinate reciprocamente, risate e grida. Io rimasi allacciato ad Anne, un po’ incerto sul da farsi, vista la sua totale passività e il suo mutismo.

Dalla sala avevo una visuale parziale della camera da letto padronale, la metà finale del letto e la parete della cabina armadio. Ruotando con Anne avvinghiati in una specie di ballo del mattone ci giungevano dalla porta della camera, lasciata aperta, immagini flash a distanza di circa quindici secondi l’una dall’altra, il tempo impiegato per compiere un intero giro di lento.

Alain senza camicia, Sophie in reggiseno davanti a lui, Alain seduto sulla sponda del letto con lei in braccio, le lingue intrecciate. La schiena e il fianco di Sophie senza più reggiseno, Alain in piedi si toglie i pantaloni, Sophie perde la gonna. Alain in piedi con la verga tesa, Sophie senza mutandine. La schiena e il sedere di Alain e Sophie seduta sul letto con la bocca strapiena del suo pene. Il letto vuoto. Alain sopra Sophie. Sophie sopra Alain. Il viso deformato da smorfie e il mezzo busto di Sophie a carponi scosso dai colpi di verga di Alain che la penetrava da dietro. Gemiti ed ansimi di lei e turpiloqui di lui.

L’erezione mi arrivò improvvisa ed impetuosa. Mi stavo eccitando a vedere Sophie posseduta in quel modo quasi animalesco, scossa dai colpi incalzanti della verga di Alain. Non c’era proporzione nelle rispettive dimensioni, Sophie era davvero uno scricciolino a confronto del gigante Alain ed anche questo mi eccitava. Il suo pistone di carne non le lasciava tregua, godeva e soffriva, almeno a giudicare dalle sue espressioni facciali stravolte.

Cercai la bocca di Anne, ormai incurante delle mie elucubrazioni estetiche circa il suo aspetto poco attraente. Me la porse con gli occhi chiusi, passiva. Ruotai la lingua nel suo palato senza sapore, senza essere corrisposto. La sua bocca restava morbida, passiva, non partecipante. La sua lingua accoglieva la mia ma senza iniziativa, spostandosi, più che altro, al passaggio della mia. Infilai una mano sotto la sua maglietta, cercandole il capezzolo, strizzandolo. La guidai sul divano, senza sforzo. Le sfilai la maglia, senza incontrare resistenze e la faci sdraiare. Giaceva, con gli occhi chiusi e le mani lungo i fianchi. Le fui sopra, liberandomi della camicia a mia volta. Ancora provai a baciarla, più appassionatamente, ruotandole la lingua in bocca, accarezzandole il seno, la pancia, le spalle. Nessuna reazione. Sembrava totalmente passiva, completamente non reattiva. Il lettore CD, giunto alla fine del programma era adesso muto, dalla stanza da letto giungevano solo i gemiti di piacere e dolore di Sophie e i “godi troia” di Alain che ancora la stava penetrando, instancabile, da dietro. Sfilai i pantaloni ad Anne, lasciandola con un paio di culotte nere. La liberai anche di quelle. Anne non abbandonò la sua posizione, supina, con gli occhi chiusi, le membra inerti. L’impressione di avere a che fare con un sacco di biancheria, andava aumentando. Ancora provai a baciarla, a leccarle e mordicchiarle i grossi capezzoli. Nessuna reazione. Mi avventai allora con la bocca sul suo sesso, divaricandole le gambe leggermente, esplorando con la lingua le sue cavità. Mi accolsero un odore acre, come di ammoniaca e di chiuso ed un sapore acido, decisamente poco gradevole. Coraggiosamente continuai a titillarle il clitoride a colpi di lingua e di pollice, nel tentativo di svegliarla dal suo apparente torpore, di renderla un po’ più partecipe del momento. Alain venne finalmente dentro una Sophie esausta, almeno così mi parve, a giudicare dall’urlo tribale che giunse dalla camera. Anne non dava segni di reazione ed io stavo soffocando. Mi liberai dei pantaloni e dei boxer elasticizzati, lasciando libero il mio membro eretto. Feci sedere Anne sul divano, appoggiata allo schienale, avvicinandole alla bocca il glande scoperto. Non fece un gesto, un movimento. Stava ancora seduta, muta, con gli occhi chiusi. Adesso cominciavo a stancarmi. Le spinsi il glande tra le labbra, rudemente, schiudendole la bocca. Ancora mi accolse una bocca morbida ma totalmente passiva. Nessuna iniziativa da parte sua. Vedevo Alain supino, sdraiato sul letto, intento anche lui a farselo succhiare da una Sophie che invece, stava dando prova di grande iniziativa. Le spinsi il pene in bocca. Niente, occhi chiusi e braccia lungo i fianchi, le mani sulle cosce. Allora, reggendole il viso con le mani, la scopai in bocca, letteralmente. Sentivo il mio glande che le urtava il palato, affondavo senza ritegno i colpi giù fino in fondo all’epiglottite. L’unica reazione di Anne fu stringere a pugno le mani che teneva in grembo. Sophie si era impalata sulla verga di Alain, ancora steso sul letto. Vedevo le sue tettine sobbalzare mentre lo cavalcava, il viso arrossato, i capelli più scompigliati del solito. La visione mi eccitò ulteriormente. Venni nella bocca di Anne dopo qualche istante. Rivoli di sperma le scendevano dagli angoli della bocca quando estrassi la verga bagnata. Evidentemente non era una fan dell’ingoio. La sua totale passività mi stava innervosendo. La girai di tergo. Il suo sedere bianco davanti al mio pene eretto. Notavo ancor di più le sue forme non forme. Mancava di fianchi, la schiena scendeva dritta e le diventava subito sedere. Un sedere piatto e basso. Il giro coscia eccessivamente abbondante, i polpacci grossolani, le caviglie sgraziate. Non so cosa mi prese. Forse volevo scuoterla dalla sua passività o forse ero indispettito dalla sua sciatteria. Le allargai le natiche. Puntai il mio glande ancora umido di sperma e saliva verso il suo ano. Senza altra lubrificazione lo spinsi deciso all’interno. Il suo sfintere si dilatò, Anne emise un grido sommesso “No! Ah, ah, Arrêt...”. Il mio palo di carne, ben lungi dal seguire l’ordine, le penetrò il retto per i suoi diciassette centimetri di lunghezza, fino alla radice. Poi si arrestò. Sentivo le contrazioni dei muscoli rettali di Anne, che si adattavano alla ingombrante presenza dell’intruso. Rimasi così per una ventina di secondi, godendomi questa stimolazione involontaria offertami dal culo di Anne. Poi, eccitato, cominciai a penetrala con violenza. Il mio scroto sbatteva, al ritmo di un colpo ogni due secondi, sul suo sesso, aumentando la mia eccitazione, già vicina al culmine. Anne adesso si lamentava piano, con la faccia poggiata su un cuscino, le dita che stringevano la sponda del divano. Sospirava e gemeva frasi incomprensibili, ma non accennava minimamente a voler cambiare posizione, nè a divincolarsi. Continuai così a penetrarla ritmicamente da tergo, con la verga che adesso le scivolava agevolmente, su è giù per il retto. Distinguevo nettamente, tra le chiappe che continuavo a tenerle divaricate, l’anello rosa dello sfintere che serrava il mio pene. Le venni dentro, spingendole nuovamente il mio pene fino in fondo, lasciando che le contrazioni della mia eiaculazione venissero assecondate da quelle dei suoi muscoli rettali. Fu un momento quasi estatico. Sentivo gli spasmi del suo culo spremere il mio seme fino all’ultima goccia. Rimasi dentro di lei, immobile, appoggiandomi sulla sua schiena, stremato. Estrassi la verga dal suo ano. Sembrava sporca, di una sostanza appiccicaticcia e densa. Pensai con panico al sangue e mi maledissi cento volte per la pigrizia di non aver indossato almeno un preservativo. Ma l’odore inconfondibile di gabinetto sporco non lasciava dubbi in merito alla natura della secrezione. Anne mi aveva sporcato di merda, la sua merda. Ero spiazzato e disgustato, nei rari rapporti anali nei quali ero stato coinvolto, non mi era mai successo nulla di simile. Anne conservava la sua posizione prona, con la faccia sul cuscino e le unghie piantate nel rivestimento del divano. Non so cosa mi prese, forse la rabbia. La feci rialzare, posizionandomi con il pene, ancora sporco di sperma e di merda davanti alla sua bocca. Le parlavo in Italiano oramai, incurante del fatto che comprendesse o meno le mie parole.

- Che cazzo hai fatto, eh? Guarda? Tu l’hai sporcato e adesso tu lo pulisci, hai capito?
- ...
- Leccalo, puttana, pulisci.
- ...

Le infilai il pene tra le labbra, ma come feci per spingerglielo più in fondo, Anne emise un grido strozzato e corse in bagno. Il rumore inconfondibile di due conati ravvicinati, seguiti da un terzo mi fece capire dove fosse andata a finire una cena così speciale.

Alain e Sophie, nudi, si affacciarono dalla porta della camera. Si accesero le luci.

- Oh, Billi, tutto bene?
- Si, dai poi ti spiego. Fammi andare a lavare.

L’odore sgradevole che ancora aleggiava nell’aria e la vista del mio pene sporco, non lasciavano dubbi sulle vicende. Alain dapprima incredulo e anche un po’ in apprensione, adesso rideva, rideva come un matto, piegato in due. Sophie corse in bagno dalla sorella.

- Ridi, ridi. Vai a vedere il divano, poi vedi come ridi, pistola.

La conclusione della serata fu veramente surreale. Dopo che tutti ci fummo rinfrescati e calmati un po’, Alain offrì tisana ai frutti di bosco, miele provenzale e biscotti allo zenzero in cucina. L’orologio segnava le 24:45. La conversazione riprese più o meno dal punto in cui si era interrotta, prima delle danze e di tutto il resto, senza più falsi imbarazzi. Alain riaccompagnò a casa le ragazze. Sophie ed Anne mi congedarono calorosamente sulla soglia di casa, mentre le aiutavo a infilare le giacche, ormai asciutte, ringraziandomi per la cena deliziosa e la splendida serata. Giuro.

Alain, come sempre, fece la sua sintesi, che giudico perfetta, della serata, qualche giorno dopo. Le due cose memorabili furono la cena che avevo imbandito e il conto mostruoso presentatoci dalla Teinturerie Castelli, in seguito ad un tentato intervento di pulizia delle fodere del divano a domicilio (con enorme imbarazzo da parte nostra) ed allla conseguente sostituzione totale delle stesse, visto il fallimento del tentativo. Non incontrammo mai più nella ridente Cannes, nè Anne, nè Sophie.
To be continued

Friday, September 02, 2005


I opened my eyes and my room was bright.
I wondered what happened outside last night.

I opened the windows and let everyone know
The world was covered with fluffy white snow

I grabbed my mittens, my scarf, and my suit
And pulled on my brand new winter boots.

I ran outside and I started to play,
And hoped that the snow was here to stay.

(Nursery Rhyme)


A private Cannes - part three

I giornali erano pieni dei funerali di Lady D. Il giorno prima anche la TV francese aveva trasmesso l’evento in diretta. Comprai il Corriere e il Guardian all’edicola vicino al Municipio e puntai verso L’Havana Room sulla Croisette, in cerca di un buon Cohiba siglo I. Consumai la mia solita colazione in una Brasserie, di fianco al ristorante Au Mal Assis, con i tavoli all’aperto di fronte al Vieux Port, la Marina Vecchia, occupando un tavolo accostato al muro della salita di Rue de la Rampe. Sorseggiavo spremuta di arancia, sfogliando i giornali.

La barca del Plongèe Club de Cannes, puntuale come sempre, stava lasciando il Quait Saint Pierre. Intravidi Patrick nella plancia di comando del Sylpa, con l’inconfondibile barba grigio-rossa, che manovrava. Sul ponte i subacquei cominciavano a montare le attrezzature o si attardavano in chiacchere, sul ponte e a poppa. L’anno precedente ero riuscito a trascinare Alain nel magico mondo delle immersioni subacquee.

Io avevo cominciato questa attività anni prima. Fu l’estate in cui Paola mi lasciò. Dopo più di tre anni di relazione. Fu una specie di shock, la fine del primo vero amore “adulto”. In un luglio, che ricordo assolatissimo, mi disse che era finita, che aveva bisogno dei suoi spazi, che doveva fare altre esperienze. Mi disse che l’aspettava l’Università, Facoltà di Architettura, un progetto di programma Erasmus, un appartamento in condivisione con le amiche. Aveva conosciuto un musicista, per giunta. E io troppo lontano, a Bologna, che arrancavo con gli esami del secondo anno di Agraria. Gli amici, le osterie, le gite fuori porta, una specie di tradimento incompleto con una ragazza di medicina e troppi, troppi fine settimana in cui non facevo ritorno a Milano. Non poteva funzionare. E infatti non funzionò. Ma l’abbandono fu devastante. Le vacanze, che avevamo progettato insieme, chiaramente saltarono, date le circostanze. Mi ritrovai, da solo, a metà Luglio a dovermi organizzare qualcosa per vincere la depressione e la noia di un agosto in città. Carola, della Clock Travel, mi propose qualche ultima occasione da prendere al volo. Scelsi un villaggio Venta Club sul Mar Rosso. Conobbi, già in volo, Beatrice con la quale non ebbi altre esperienze che quelle sott’acqua, malgrado i miei tentativi vani, più che altro portati avanti con la convinzione che “chiodo scaccia chiodo”. Però furono due settimane splendide, di colori, odori, deserto, un mare che sembrava un acquario, uscite in barca, motorate sulle dune, al termine delle quali mi ritrovai con due brevetti PADI, “open water” e “advanced”, una passione per la subacquea e il conto in banca quasi prosciugato.

La subacquea, in ogni caso, quell’anno, si rivelò anche strumento utile alle conquiste estive. Trascinai un Alain molto poco convinto sul Sylpa, la diving boat grigio acciaio, che fungeva anche da ufficio per il Plongée Club. Ci accolse Sylvie, la moglie di Patrick, che ci illustrò brevemente le attività. Io scelsi un pacchetto di immersioni ricreative mentre Alain, neofita totale, ebbe poca scelta e si sottopose al programma beginners della didattica francese, il Niveau 1. Le attività del Sylpa cominciavano alle nove e trenta del mattino, una immersione in mattinata, pranzo leggero e una immersione nel primo pomeriggio. Alle 15:30 si riattraccava in porto.

Patrick conduceva la barca su diversi diving spots, ogni giorno, Sylvie guidava uno dei gruppi degli escursionisti, quattro, cinque persone al massimo, René il secondo, Marc e Philippe, per quell’anno, il gruppo degli allievi dei corsi, divisi per livello. Gli escursionisti erano diversi quasi ogni giorno, per lo più subacquei abbastanza esperti, stufi del sightseeing, che si prendevano una pausa dai figli, mogli o mariti a spasso per Cannes. I gruppi degli allievi invece stavano insieme per almeno una settimana, la durata del corso.

Il mio gruppo di escursionisti si rivelò invece abbastanza stabile ed omogeneo. Era composto da due ex-sotto ufficiali della Marina Britannica, oramai a riposo, con una esperienza sconfinata in tema di immersioni. Era un piacere ascoltare i loro racconti di immersioni nelle acque in burrasca del canale della Manica, o nel golfo di Oman. Oramai entrambi oltre i sessantacinque, conservavano però fisici discretamente prestanti e facevano sfoggio di attrezzature tecniche veramente all’avanguardia. Una signora svizzera, preoccupantemente sovrappeso di una cinquantina di anni completava il gruppo base. Si aggiunsero saltuariamente, nei diversi giorni della settimana una coppia di ragazzi francesi in viaggio di nozze al “battesimo degli abissi”, un aitante ragazzone americano che fu un grado di pallonare dai venti metri, una coppia di belgi dove, giuro, lui sembrava Hercule Poirot.

Alain invece fu più fortunato e si ritrovò in gruppo con due ragazze, sorelle, più o meno nostre coetanee ed un padre di famiglia che, ogni mattina, raggiungeva il Sylpa con moglie e figlia, le quali lo salutavano sempre come se – povero! - non dovessero rivederlo più. Il gruppo del Niveau 2 era invece composto da abituée, molto in confidenza tra loro, ma molo chiusi verso gli estranei.

Le nostre attenzioni si rivolsero, come naturale, verso le due sorelline, Sophie la minore ed Anne, la maggiore. Le ragazze non erano una bellezza, va detto subito. Sophie raggiungeva a mala pena il metro e sessanta, aveva capelli color paglia stopposi e sempre aggrovigliati in una acconciatura informe, lineamenti taglienti e una peluria bionda ma evidente sopra il labbro superiore. Però gli occhi azzurri e grandi, i denti bianchi perfetti ed una silohuette da sportiva, la rendevano, in qualche maniera, sufficientemente attraente. Anne era la “donna senza forme”. Alain la chiamava così, in sua assenza. Alta un metro e settanta, capelli neri lisci a caschetto, carnagione bianchissima, sedere piatto e basso. Una prima taglia di reggiseno e una bocca morbida e piena erano le uniche due qualità degne per me di attenzione. Sophie era un piccolo terremoto, sfrontata ed impudente, capace di continuare una conversazione guardandoti dritto in faccia mentre si cambiava il costume bagnato, mostrandoti seni e sedere, entrambi degni nota senza vergogna, mentre si asciugava. Anne era l’esatto contrario, taciturna e schiva, a stento prendeva parte in una conversazione, rispondendo esclusivamente quando interpellata. Sembrava anche eccessivamente pudica, a giudicare dai neri costumi interi di foggia retrò che indossava sotto le mute. Fatto sta che fossero le uniche due ragazze abbordabili nella circostanza. Alain ed io ci scherzavamo sopra già dal primo giorno, io mi prendo la bionda e tu la mora, io la nana tu la donna senza forme, io la troietta e tu la suorina, e così via, a immaginarsi gli scenari possibili. Dopo i primi tre giorni, eravamo un pochino di più in confidenza e mettemmo in atto qualche approcio più galante, roba del tipo “vi va di venire a cena con noi”, “vi accompagnamo a casa noi”, molto soft. Le ragazze in realtà ci rimbalzavavano sistematicamente, rifiutandosi perfino di farsi accompagnare al misterioso bed & breakfast dove dicevano di essere alloggiate.

- Cazzo ne so, magari pensano che siamo due maniaci.
- Va beh, ma scusa, a me pare eccessivo, in vacanza, due tipi come noi... un ristorante, un pub, mica... mah, mi sa che queste due tipi come noi non li hanno mai beccati, te lo dico io.
- Forse è per questo che pare loro strano che ci interessiamo così...
- Eh, va beh... vivre la vie, santiddio! Carpe diem!
- Magari sono fidanzate, che ne so, queste bretoni magari sono un po’ come le nostre calabresi...
- Allora siamo a posto, a Tropea un anno ho beccato una... ciao, una pompa idrovora, giuro. Dentro non lo voleva prendere, ma ti giuro che non ho patito, mi ha ammazzato di pompini! Lo prendeva in bocca dovunque, una assatanata.
- Sei il solito, Alain, a sentire te, hai trombato mezza Europa!
- Oh, ti giuro!
- Va beh, senti un po’ me. Vediamo di invitarle a cena queste due, dai, mettiamo su un po’ di spettacolo pirotecnico, la terrazza, due candele, un po’ di musica, lo champagnino ghiacciato, dai, le solite puttanate da clichè che fanno effetto. Se no molliamo il colpo e non pensiamoci più. Se proprio vuoi fare il botto, mandiamole una macchina con l’autista...
- Ma si, non è quello, è che queste proprio sono di legno, non vedi? Non ci sentono da quell’orecchio. Boh.
- Magari non siamo il loro tipo. Magari sono lesbiche. Che ne sai!?
- Dai, domani vediamo. Io mi butto.

Arrancavamo con le borse dell’attrezzatura lungo il Boulevard du Midì, diretti alla Plage des Sports, dove contavamo di finire il pomeriggio con un bel bagno e un bel libro.

La vista dalla terrazza era meravigliosa. L’aperitivo al tramonto era diventato un rito, gin-tonic e stuzzichini, i mitici formaggini di Ceneri, olive e peperoni sott’olio, pizza a pezzi, scaldata nel micro. Adesso le Isles de Lerins si stagliavano scure contro un cielo striato di giallo, rosa, e decine di tonalità di viola. Si accendevano le prime stelle, insieme alle luci della città e di quelle degli yacht ormeggiati in baia. In forno rosolava un coniglio alle olive e timo. Immancabile, lo Chablis ghiacciato della riserva personale del babbo di Alain che veniva saccheggiato sistematicamente dalle casse in cantina.

- Billi tu dovevi aprire un ristorante.
- Si, prima o poi lo faccio davvero.
- Le immersioni non sono male. Mi sto divertendo, sai? Bella pensata.
- Sicuramente meglio che fare la muffa giù sui lettini, tanto poi oramai è risaputo, alla Plages Des Sports non si becca mai un kaiser.
- Si, su questo hai ragione, l’anno prossimo cambiamo.
- Ma piantala! Lo diciamo tutti gli anni. Ma vah, poi alla fine siamo comodi, è subito qui sotto, il Restaurant a la Plage poi non è male per niente, dai, il pesce è sempre freschissimo.
- Ti ricordo che sono già passate due settimane e quest’anno non abbiamo ancora pucciato il bisquit.
- E rilassati, che è? Devi timbrare il cartellino? Che serà serà.

La mattina successiva il tempo era bruttino, pioggerellina a tratti, vento teso dal mare e cappa di grigio plumbeo. Alain decise di tirare fuori la macchina, il tragitto a piedi, con le borse in spalla, fino al Vieux Port era improponibile. Trovammo un parcheggio a pagamento vicino al Le Mediteranée. Un breve tratto a piedi con il cappuccio della giacca calcato in testa. Salimmo a bordo del Sylpa.

Bonjour, bonjour, non è poi così bon questo jour, ma si va lo stesso? Si qui vicino, un insenatura un po’ riparata. Alain traduceva per me il francese di Patrik. Il gruppo escursionisti era ridotto a John e Roland, i due ex-sotto ufficiali britannici e al sottoscritto. Il gruppo di Alain erano solo Anne e Sophie. La zona di immersione era vicina all’isoletta di Saint Féréol. Oggi avremmo visitato un piccolo relitto a circa 25 metri di profondità, un motoscafo affondato per un urto contro uno scoglio.

L’immersione fu buona. Nonostante il mare increspato in superficie e la pioggia a tratti battente, sott’acqua tutto filò liscio. Anzi nel risalire dalla scaletta posteriore, martellato dalla pioggia e investito dal vento freddo mentre mi cambiavo il più rapidamente possibile, pensavo che sotto si stava decisamente meglio. Di comune accordo decidemmo di annullare la seconda immersione giornaliera e Patrick tornò dalla cambusa con un bel Vin De Pays rosato e fresco che restituì a tutti il buon umore.

Vedevo Alain parlottare fitto fitto con Anne e Sophie, mentre il Sylpa puntava verso la terra ferma. Io ascoltavo i racconti di Roland di una immersione nelle gelide acque della Normandia. Alle 11:45 sbarcammo al Porto Vecchio. Saluti rapidi, arrrivederci, ciao-ciao a domani.

- Allora Billi, vedi che le ho convinte, cena stasera da noi. Gliela ho messa giù come una roba tipo anticipo festeggiamenti della fine del corso, dice Sophie che alla fine della settimana partono.
- E bravo l’Alain. Peccato ‘sto tempo infame.
- Si c’è un po’ da organizzarsi, dai facciamo ancora in tempo a comprare qualcosa. Che suggerisci?
- Io starei con un bel branzino e una insalata. C’e da pensare a qualche antipastino. Che dici?

Depositammo le borse bagnate nel baule della macchina e in quattro falcate raggiungemmo il Marchè Forville, appena in tempo per uno shopping alimentare a passo di marcia. Il mercato era ancora affollatissimo, molti turisti, vista la giornata piovosa, riempivano le vie del centro, svuotando le spiaggie. Il banco del pesce ci rifornì di un loup de mer di quasi due chilogrammi. Comprammo olive verdi giganti in salamoia, erbe aromatiche, funghi cantarelli e frutta. Da Ceneri, in Rue Meynadier, ci rifornimmo di crottin de chévre e blue de montagne.

Nel tardo pomeriggio attaccai con i preparativi per la cena. Alain si occupò del solito saccheggio della cantina. Risalì dalla spedizione punitiva con una bottiglia di KRUG e due gioielli di Romanée-Conti, Richebourg Côte de Nuits 1991.

- Si ma tuo padre ci ammazza. Non gli possiamo svaligiare la cantina tutte le estati.
- Ma vah, la maggior parte di questa roba gliela regalano.
- Si ho capito, però... da sole quelle due bottiglie lì ti costano mezzo stipendio.
- Sai che gliene frega. Tanto lo sai, qui ci viene ogni tanto, si porta le stagiste o le nuove segretarie... il vecchio maiale.
- Oh degno figlio di cotanto padre!
- Buon sangue non mente! In alto i calici.

Il padre di Alain era sempre stato ai miei occhi un personaggio da film. Medico, specializzato in dermatologia, francese di origini italiane, sembrava veramente un attore. Alto come suo figlio, di corporatura robusta. Portava i capelli grigio argento tagliati corti. Sempre abbronzato ed elegantissimo, spigliato e divertente era una compagnia davvero piacevole. Non erano state infrequenti le occasioni in cui, da studenti liceali ed universitari, addirittura passavamo con lui i nostri venerdì o sabato sera. Spesso offriva a noi e alle nostre fidanzatine, l’aperitivo, facendoci sentire assolutamente a nostro agio anche di fronte alle nostre azzardate ordinazioni tipo vodka orange o gin tonic, cosa che, al mio di padre, avrebbe fatto rizzare i capelli in testa. Capitava anche che ci scorrazzasse tutti quanti a cena in posti impensabili per ragazzi che, come noi, al massimo, in quegli anni, spiluccavamo qualcosa da Burghy, o al bar Centrale. I ristoranti dove ci portava erano sempre di stralusso, servivano cibi la cui descrizione occupava righe e righe dei menù presentati in cartellette di cuoio anticato o velluto con intarsi dorati.

Era bellissimo farsi le vie centrali sulla sua Saab 900 cabrio blu. Le nostre ragazze erano sistematicamente affascinate da Francois Vanonì, con l’accento sulla i. Alain viveva il rapporto con il padre a momenti alterni. Da un lato faceva tutto il possibile per cercare di non assomigliarli, dall’altra in realtà ne aveva una ammirazione smisurata, come tutti noi. Era impossibile non amare un uomo così. Non ci riuscì invece sua moglie, la mamma di Alain, figlia di un’ottima famiglia di farmacisti brianzoli da generazioni, sposata giovane e bellissima. In quegli anni Alain trascorse molto tempo da noi. Mi ricordo che si fermava tante notti a dormire a casa nostra. I miei lo avevano un po’ adottato, durante le fasi più burrascose della separazione dei suoi genitori. Poi le cose si acquietarono ed Alain rimase a vivere con la mamma Giulia. Il padre fu comunque e continuava ad essere, una presenza rassicurante e stimolante per Alain. Sicuramente più che un padre un amico, a volte, addirittura, compagno di bisboccia. La madre di questo soprattutto si lamentava, di avere due ragazzini. Troppi congressi alle Canarie, a Parigi, troppe notti in ospedale, troppe altre donne con ruoli non ben definiti agli occhi della moglie, nella vita di Francois. Giulia, quando Alain andò a vivere da solo, si riaccasò, con un avvocato noto ma persona davvero insipida che ad entrambi stava discretamente sulle palle. Quando compì diciotto anni Francois regalò ad Alain una Golf cabrio. Io mi beccai un Rolex in acciaio, ma di automobili non se ne parlò fino ai ventun anni, quando ottenni, a fatica, una Uno 1.7 diesel, nonostante le varie grane che piantai per cercare di avere almeno qualcosa di un po’ più trendy.

Affettai le mele verdi a fettine sottili e le feci appassire in tegame con poco burro ed un po’ di olio. Un cucchiaio di zucchero e mezzo bicchierino di calvados. Le distesi un quattro piccole ciotole. Depositai un crottin de chevre in ogni ciotolina e feci rapprendere un po’ la salsa, unendovi i funghi canterelli che Alain aveva già ucciso sciacquandoli sotto l’acqua bollente, prima di distribuirla nei quattro contenitori.

- Queste poi le mettiamo due minuti nel micro prima di servirle. E’ l’antipastino tiepido. Qui ci beviamo sopra quel KRUG che hai messo in fresco.
- Ha un profumo spettacolo!

Il branzino entrava a malapena nella teglia da forno più grande che avevamo a disposizione e, quindi, gli amputammo un po’ la coda. Preparai un bel letto di patate a fette e aggiunsi pomodorini cherry ed olive nere. Uno spicchio di aglio rosa vestito, olio, salvia e rosmarino.

- Ti ricordi dove abbiamo imparato questa ricetta? Ok, non era branzino, ci facevano le orate in questo modo. Ti ricordi?
- No..., Sicilia?
- Ma vah. Marciana Marina! Con la Marika e Francesca. Ti ricordi? Le cene al Capo Nord! Che poi avevi detto che ci vuole, basta il pesce fresco, non è una gran difficoltà. Billi cucina meglio, e tutte le tue stronzate! E avevi chiesto al cuoco la ricetta. Il giorno dopo siamo andati a comprarci il pesce al molo...
- Ah, è vero. E bravo Billi, memore del successo, hai tirato fuori l’artiglieria culinaria, eh? Ma non ti illudere troppo che secondo me queste qui non la smollano.
- Conosci il detto: dona smorta, figa forta.
- Si va beh, senti io le invitate, tu hai cucinato, vediamo di non far pirlate, se va va, altrimenti, te saludi Carolina.

Il borgogna rosso non era un abbinamento del tutto ordosso per accompagnare il pesce, ma Alain partiva dal presupposto che a un Romanée-Conti 1991 non si poteva dire di no, la serata inoltre era piovosa e il vino rosso fa più intimità. Fummo costretti ad apparecchiare all’interno, di fronte alle grandi vetrate che davano sulla terrazza, che lasciammo purtroppo chiuse. Stappai il vino e lo lasciai ossigenare un po’.

Alain verso le diciannove uscì in macchina per andare a prendere le sorelle. Ci eravamo dati da fare, la cena, la tavola, le luci, un po’ di candele piazzate ad arte qua e là, Paul Simon in sottofondo. Un bel set. Cominciava ad imbrunire.
To be continued...

Thursday, September 01, 2005


Far away over the ocean tonight,
Someone is sailing and thinking of home,
Far from the loved ones who wait in the harbor,
Searching the darkness for one little light.

I'm a watchman...in the night,
I'm a keeper of a light,
For the wanderer's returning
I must keep the watch fire burning,
I'm a watchman, I'm a watchman in the night.

I stood for days upon years
Watching the harbor lights.
Gave smiles to the wind,
And to the sea only tears
As it carried away my life.
Confessing my desire to none,
But the waves in my head.

Seashells crunched
Under the weight of my burdens.
The Lighthouse watched,
Feet sunk into sand,
As I try to flee the last tide.

Sail away with a fair ocean's breeze
With a cresting blue wave of the sea
With cables trimmed fast
And a canvas filled mast
On a fair ocean's breeze sail away.

(Unknown)


A private Cannes - part two

Alain aveva avuto ragione. Trascorremmo i due giorni successivi senza lasciare casa, rimbalzando tra i lettini della terrazza ombreggiata e quelli assolati a bordo piscina, praticamente deserta. No news good news. Di questa storia non parlammo più molto, scivolò via, insieme ad altre, nell’armadio dei ricordi.

La giornata si preannunciava bella, il velo di foschia all’orizzonte si sarebbe sollevato di lì a poco, aiutato dalla brezza che soffiava da levante. Lasciato il Collège International alle mie spalle, percorrevo adesso a piedi il Boulevard Du Midì, diretto verso il centro.

I ricordi richiamarono però alla mente un altro episodio di questo tipo in cui Alain si ritrovò coinvolto. Risaliva addirittura al periodo in cui eravamo alle scuole medie, ma forse la causa scatenante, in quella occasione, fui proprio io.

Durante l’estate, all’epoca, frequentavamo dei corsi di vela sul lago di Lecco, a Dervio. I miei genitori, che avevano casa lì e un Comet 910 ormeggiato al porticciolo del Centro Vela, d’abitudine ci portavano per un paio di settimane con loro. La mattina anche noi eravamo impegnati al Centro, ad armeggiare con i Caravelle, le barche scuola. Armare le barche, arrotolare e srotolare cime, issare le vele, virate e strambate, tutto era abbastanza divertente e ci teneva occupati. I pomeriggi erano un po’ più lunghi e noiosi, cincischiavamo con la lettura di Topolino, Tex, il Comandante Mark, con quarche partitella a ping-pong o inventandoci gare di rally con le macchinine radiocomandate nel grande giardino che circondava la casa.

I miei poi, cercavano di ravvivarci le giornate, organizzando escursioni nei boschi vicini, qualche barbeque o consentendoci, la sera, di guardare un film dell’orrore. Quell’estate, era forse il 1983 o ’84, ricordo che chiesi il permesso di invitare due nostre compagne di classe, Roberta e Nadia, a trascorrere qualche giorno con noi. I miei genitori ne furono ben lieti, immagino pensando che la presenza delle nostre amichette ci avrebbe reso un po’ meno scalmanati nei nostri giochi e avrebbe allontanato i momenti di noia. Inoltre, conoscevano bene i genitori di Nadia e Roberta. La casa poi, era vecchia ma enorme, anche se veniva utilizzata solo per qualche settimana d’estate, visto che l’impianto di riscaldamento non era funzionante.

Eravamo solo ragazzini di dodici o tredici anni, ma ricordo abbastanza distintamente i complessi rapporti che intercorrevano tra noi quattro. Eravamo legati da una profonda amicizia, nata già sui banchi delle scuole elementari. Nadia addirittura, la conoscevo dall’asilo. Alain ed io provammo da subito, stranamente, una simpatia particolare per queste due bambine. Inoltre, abitando nello stesso quartiere, andavamo sempre a scuola insieme. Non rari erano stati gli episodi in cui le avevamo difese dai dispetti di compagni più grandi, arrivando, a volte, anche allo scontro fisico. Alain, supportato da una statura già imponente e da una corporatura massiccia, aveva facilmente ragione anche di bambini di un paio di anni più grandi. Io, meno prestante, avevo sviluppato tecniche d’attacco e difesa più bastarde, mirando alle parti vitali, occhi naso, inguine, che avevo capito essere le più vulnerabili. Nelle rare risse bambinesche in cui ci trovammo coinvolti, anche se sconfitti, lasciavamo sempre il segno. Con il trascorrere degli anni, divenimmo più cauti e riflessivi, molto poco propensi a gettarci nella mischia, a venire alle mani, cosa non infrequente ancora alle scuole superiori. Ci era capitato, purtroppo, in un paio di occasioni, di esserci misurati anche con gentaglia dal coltello e dalla catena facile, senza fortunatamente subire danni. Avevamo dunque imparato il vecchio adagio: per quanto tu sia cattivo, c’è sempre qualcuno più cattivo di te; per quanto tu sia furbo, c’è sempre qualcuno che lo è più di te.

Io da un po’ mi ero preso una cotta seria per Roberta, che tenevo segreta, perchè vedevo lei inequivocabilmente presa da Alain. Nadia invece si era presa una cotta per me, troppo distratto da Roberta per dedicarle tutte quelle attenzioni che si sarebbe meritata. Tutti noi però, stranamente, nonostante l’età, eravamo molto attenti alle sensibilità altrui, cauti nel non ferirci reciprocamente. Roberta ed Alain facevano di tutto per nascondere il loro flirt, soprattutto a me, quasi avessero intuito i miei sentimenti. Roberta cercava sempre di dedicare le medesime attenzioni ad entrambi e di non farsi cogliere in flagrante da me quando si scambiava effusioni con Alain, cosa che, poichè capitava abbastanza frequentemente, era però difficile nascondermi completamente.

Roberta e Nadia arrivarono a Dervio in un piovoso pomeriggio di metà Agosto, accompagnate dal papà di Nadia, l’Ingegner Verzi, collega di mio padre.

Uscimmo tutti sul portico, mentre l’auto si infilava nel vialetto di accesso.

Nadia scese per prima dall’auto, una Lancia Trevi c color oro. Era davvero carina, aveva tagliato i capelli corti alle spalle, sfilati. Gli occhi chiari, una maglietta bianca a righe rosse, un paio di pantaloni celesti alla pescatora. Mi abbracciò forte nel salutarmi e mi scoccò due baci sulle guance un po’ troppo vicino agli angoli della bocca.

- Ciao Alessandro!
- Ciao Nadia! Ben arrivate.

Salutò affettuosamente Alain ed i miei genitori, Franco e Stefania. Anche Roberta era scesa dall’auto. Altri saluti e baci. Mentre Stefano Verzi e le ragazze salutavano i miei, Alain ed io ci facemmo carico di portare di sopra le borse delle nostre amiche.

Stefano Verzi declinò l’invito a fermarsi per la cena e ripartì poco dopo. Mamma Stefania aveva provveduto ad offrire alle ragazze un succo di frutta ed una Coca Cola.

- Bene ragazzi, perchè non mostrate a Nadia a Roberta la loro stanza?
- Va bene, mamma. Vi abbiamo portato su le borse, dai, venite.

La stanza era dotata di un letto a castello e di una finestra che dava sul giardino. In fondo si intravedeva il lago, che in quel momento, sembrava una lama nera. Un vecchio scrittoio, due vecchie sedie spaiate e un armadio di noce tarlato completavano l’arredamento.

- Che bello! C’è un odore di... antico.
- E’ l’umidità!
- Potete mettere le vostre cose qui, almeno quelle che volete appendere.
- Oh, grazie.
- Facciamo così: sistematevi tranquille, se avete bisogno del bagno è lì a destra, poi raggiungeteci giù, facciamo merenda insieme.

Intorno al tavolone della cucina, a pian terreno, bevevamo tea freddo e mangiavamo pane e Nutella. Fuori pioveva ancora. Nadia aveva trascorso le vacanze a Fano e ci stava raccontando le sue avventure estive. Roberta era stata in montagna a S. Martino di Castrozza ma non era entusiasta.

Sembrava cresciuta, Roberta, una bella abbronzatura scura da sole di montagna, i capelli mossi neri, gli occhi scuri e le labbra piene. Le rotondità acerbe di un seno che si intuiva sotto la felpina in cotone Best Company. Le ragazze vollero vedere la nostra stanza che non era sicuramente in una condizione ideale per essere mostrata. Anche la nostra stanza aveva un letto a castello. Dormivamo nei sacchi a pelo, io sopra, Alain sotto. Fumetti sparsi ovonque, calzini, magliette, rotoli di cimette, scarpe, attrezzi, carte da gioco.

- Oddio che disastro!
- E, c’è un po’ di casino.
- Bella anche questa stanza. E’ davvero una bella casa, Alessandro.
- Mah, è vecchia...
- Dai sedetevi. Sono contento che siate qua.
- Anche noi.

Alain disse che andava a farsi un giro in spiaggetta. La spiaggetta era, in effetti, una strisciolina di arenile da cui si accedeva attraverso un cancello in fondo al giardino.

- Chi viene?
- Ma dai Alain, piove!
- Io vengo, dai, bello sotto la pioggia!
- Io resto, non mi va di bagnarmi tutta.

Avrei voluto seguirli, Alain e Roberta, sotto la pioggia, mano nella mano che si allontanavano verso la spiaggetta. Nadia però aveva declinato l’invito e non mi sembrò carino lasciarla da sola. Sentii mia madre, al piano di sotto, ricordare loro di infilarsi gli impermeabili.

- Poi dovrei parlarti, Ale.
- Anche adesso, se vuoi. Di cosa Nadine?
- Ti ho scritto una lettera al mare...
- Dai?!
- Ce l’ho qui, la vuoi leggere?
- Certo!

Nadia quel pomeriggio mi parlò del suo amore per me. Con le parole dolci, un po’ ingenue, di ragazzini che stavano diventando adolescenti. Senza schermi, seria seria. Le sue labbra sottili si appoggiarono alle mie, poi le lingue timide, si intrecciarono. La pioggia sui vetri. Dall’AIWA usciva un pezzo degli Asia. Non so quanto tempo passammo così abbracciati, a scambiarci baci dolci.

Uno dei nostri giochi preferiti era quello della bottiglia che giocavamo nella versione “obbligo o verità”. In pratica il sorteggiato poteva scegliere tra il rispondere a domande imbarazzanti o pagare un pegno, che poteva essere il compiere una qualunque impresa di una certa difficoltà o che potesse arrecargli qualche imbarazzo.

Molte delle penitenze, alla fine, consistevano nel baciarsi per un numero di secondi stabilito dagli altri, con la lingua o senza, ballare un lento, togliersi un indumento. Alain ed io cominciammo a giocarci in quinta elementare, iniziati ad una festicciola di compleanno di Francesca Caramelli, una bambina famosa tra i maschietti per le sue tettine già sviluppate e la sua propensione alla limonata promiscua. Lo esportammo subito, appena imparato, e, alle medie, non c’era festa ormai in cui non venisse praticato.

Giocavamo nel grande soggiorno del primo piano, tra le poltrone di pelle verde stinto e le vecchie credenze con le maniglie di ottone, coperte di foto in bianco e nero, in cornici di argento annerito. Stavamo seduti su un vecchio tappeto caucasico, con i ritratti di austeri gentiluomini in frac e dame eleganti che ci scrutavano dai muri. Ogni tanto, nelle serate più fresche di fine agosto, accendevamo anche il camino. Regnava sempre una sorta di costante eccitazione durante questo gioco. Vedevo le gote delle ragazze arrossate, noi ragazzi più scarmigliati. C’era sempre un clima da carboneria, sempre all’erta, sempre con l’orecchio vigile, teso a evitare che i grandi ci sorprendessero.

- Nadia! Tocca a te!
- Noooo! Guarda punta Alain.
- No, no, qua! Tocca proprio a te.
- Cavolo!
- Obbligo o verità?
- Mmmm... verità.
- Allora.. una domanda. Chi la fa?
- ...
- Io ce l’ho. Nadia... tu ti tocchi?
- Cooosa?!
- Li, dai. Ti tocchi qualche volta?
- Ma sei scemo Alain?
- Guarda che devi dire la verità.
- Ma no, scusa.
- Cioè tu hai quella cosa in mezzo alle gambe e non te la sei mai toccata? Non sai come funziona? No, non ci crediamo. Vero Billi?
- Dai, Alain.
- Rispondi Nadia, dai, o si o no. La verità.
- Si
- Quando?
- E cosa senti, ti piace?
- Queste sono due domande, forse al prossimo turno. Adesso tocca a me far girare la bottiglia.

- Ale! Tocca a te. Obbligo o verità?
- Obbligo.
- Allora, vediamo un po che penitenza ti tocca...
- Ti devi togliere i bermuda.
- Dai, ma sotto ho solo le mutande.
- Giù i bermuda.
- Va a cagà.
- Giro io.
- Robi! E’ uscita la Robi.
- Obbligo o verità?
- Obbligo.
- Allora... Devi baciare con la lingua Billi per trenta secondi.
- Alain!
- No, no, lo fai. In piedi, dai, bacialo. Billi, alzati anche tu.

Roberta ed io eravamo in piedi al centro della stanza. Alain e Nadia ci guardavano.

- Dai bacio con la lingua, trenta secondi da quando dò il via.
- Vai.
- Adesso, via, 30, 29, 28...

In piedi al centro della stanza, in mutande, con gli occhi di Nadia ed Alain addosso, la lingua nella bocca morbida di Roberta, le mani sui suoi fianchi, il suo seno adolescente appoggiato sul mio petto. Il pene mi si inturgidì all’istante. Roberta se ne accorse per prima e fece per allontanarmi.

- 10, 9, 8, ...
- No non hai finito!!
- Dai finisci. 7,6,5,...
- Ale ma...
- Ah, ah, ah, Billi ti è diventato duro! Va che bel wurstel hai nelle mutande!
- Sei il solito pirla, Alain.

Ma la mia erezione era inequivocabile. Ripresi imbarazzato il mio posto seduto vicino a Nadia, che osservava attenta il mio gonfiore sotto gli slip di cotone blu. Non mi era mai capitato di avere una erezione così palese di fronte a una ragazza. E queste erano due ragazze. E mentre stavo baciando la Robi, quando neanche due giorni prima Nadia mi aveva detto tutte quelle cose dolci. Bella figura da cioccolataio.

- Perchè a te non ti diventa duro?
- Certo.
- Succede così a voi ragazzi?
- Si.
- E’ vero, l’ho letto su un libro. E’ una “erezione”. Succede quando vi eccitate, vero? Ti ho eccitato?
- Dai Robi!
- E’ vero. Quel coso lì entra nella nostra... “vagina” e poi esce un liquido...“seminale” e nascono i bimbi.
- Hai studiato, eh!?
- Ma tu l’hai mai visto?
- Io ho visto quello di mio fratello...
- Si ma duro, come quello di Billi, l’hai mai visto?
- No.
- Billi faglielo vedere.
- Dai Piantala! Questa è un altra penitenza, poi non oltrepassiamo il limite. E adesso invece tocca a Robi far girare la bottiglia.


Quel pomeriggio stavo esplorando il sotto-tetto insieme a Nadia. Eravamo rimasti noi due in casa, i miei erano usciti in barca, di ritorno per sera. Robi e Alain avevano deciso di fare un giro giù al camping, adiacente al Centro Vela, per una passeggiata ed una coca. Io avevo in mente già da un po’ di andare alla ricerca di vecchie cianfrusaglie nel sottotetto. Il posto si prestava alle esplorazioni, ricordava un po’ un set di Indiana Jones ed I Predatori dell’Arca Perduta, o il sotterraneo dei “Goonies”, avrei detto qualche anno più tardi. C’erano vecchi bauli rivestiti di cuoio borchiato, vecchie mappe geologiche, scatole impolverate con oggetti dimenticati da rispolverare. Ragnatele ovunque. Ogni anno, fin da bambino, mi infilavo là sotto, alla ricerca di nuovi tesori.

Non faticai a convincere Nadia ad accompagnarmi, vedevo come si prodigava per cercare sempre di creare situazioni in cui potessimo starcene un po’ appartati insieme. Forse anche per allontanarmi da Roberta. Anche lei aveva intuito qualcosa?

Una sera precedente avevo colto Alain e Roberta bisbigliare e baciarsi dietro una colonna del porticato. Provai un senso di disagio... di gelosia? Più tardi in camera Alain mi tampinò parecchio per conoscere la ragione del mio silenzio ostile.

- Billi, e dimmelo cos’hai.
- ...
- Hai litigato con Nadia?
- No
- Tua madre?
- No
- Tuo padre?
- No
- Ce l’hai con me?
- ...
- Cosa ti ho fatto?
- ... a te la Robi piace davvero?
- Oh cristo! Allora aveva ragione! E’ per questo? Sei geloso?
- Perchè te ne ha parlato?
- Mah, così, ha detto qualcosa, ma le ho dato della matta. Però, cazzo, non potevi dirmelo tu? Scusa, siamo o no amici?
- Non è sempre così facile...
- Va beh, ma a te non piace Nadia? Siete sempre lì appiccicati, ti sistema i capelli, la camicia, mi sembri rincretinito!
- Si, mi piace ma... Alain non lo so, quando vedo la Robi, mi scatta qualcosa...
- Eh, l’ho visto! C’avevi un tubo del 12 nella mutanda, l’altro giorno!
- Si, a parte quello, dai, cavolo, sei sempre terra terra!
- Ascolta Billi. Se ti piace la Robi a me non mi interessa. Diglelo e stacci tu. Non mi interessa, di donne ce n’è quante ne vuoi, io ho dodici anni, cacchio, tutta la vita davanti per corteggiare le fanciulle. Si la Robi ha un bel viso, due belle tettine, però tu sei il mio amico. Se ti piace, prenditela tu. Basta che sorridi, Billi, cazzo, basta che sorridi!
- Allora a te non interessa, non sei innamorato...
- Ma dai! Cavolo, stai con la Nadia, volevo divertirmi un po’ anch’io. Poi scusa, che facciamo? Anche la Robi poverina... vi reggiamo il moccolo in due?
- No, che c’entra...
- Prendila come viene, Billi, fai quello che ti senti, a me non devi spiegarmi niente. Cavolo, mi hai sempre aiutato, a scuola, con il casino dei miei, sei il mio amico, Billi. Figurati se vado a rovinare tutto per una ragazzina.
- Va beh, ma lei non la calcoli? Chi piace a lei? Cosa prova?
- Ascolta Billi, io posso solo tirarmi fuori dal casino, non portartela in ginocchio con i fiori in mano. Parlaci tu. Buonanotte.

Ma non smise di appartarsi con lei, come, d’altronde, non smisi io di farlo con Nadia. Con naturalezza, scegliemmo entrambi la via meno ripida e la più soddisfacente per tutti.

Aprii la botola di legno che conduceva al sottotetto. Era una portina di un metro e venti per un metro, e per attraversarla dovevamo metterci in gioncchio. Non ho mai compreso davvero come il sottotetto avesse potuto riempirsi in quel modo di colli anche così ingombranti. Forse l’accesso venne ridotto in seguito.

- Ce l’hai le candele?
- Si.
- Vieni, entriamo.

L’ambiente era polveroso e avvolto in una penombra scura. Dalle fessure, tra le travi che reggevano le tegole, filtravano lame di sole, che illuminavano il pulviscolo in sospensione. Faceva caldo ma l’odore di polvere, di umidità che si asciuga e di vecchio, non era poi così spiacevole.

- Vieni Nadia, stai attenta. Passami le candele che le accendiamo.
- Eccole.

Strofinai la testa di zolfo del fiammifero da camino su un asse del pavimento e accesi le due candele che avevamo fissato su due bottiglie vuote. La stanza si rischiarò. Il locale misurava una trentina di metri quadrati circa, la parte più alta della soffitta raggiungeva i due metri, le due campate del tetto spiovevano fino a lasciare ai lati una altezza di cinquanta centimetri circa. La stanza al centro era abbasta sgombra, ma le pareti erano veramente ingombre di oggetti di ogni tipo. Poggiammo una candela al centro della stanza e cominciammo l’esplorazione dalla parete alla nostra destra.

- Ale, stammi vicino, ho un po’ di paura.

Nadia mi stava stretta addosso, sentivo il profumo di mela verde dei suoi capelli e il suo respiro che sapeva di Brooklyin alla cannella.

- Ma va, stai tranquilla, qui non c’è niente di pericoloso. Forse qualche scorpioncino, ma basta che illumini prima di mettere le mani.
- Scorpioni!? Ma sei scemo a portarmi qui?!
- Non ti fanno niente. Vieni, guarda qui. In questo baule ci sono delle cose carine, mi ricordo dall’anno scorso.

Aprii un vecchio baule di legno. Conteneva dei vecchi plaid scozzesi, un cesto da pic-nic di vimini e dei candelabri in ottone. Scatole intarsiate in ebano e osso e altra mercanzia.

- Wow!
- Bello eh?! Te lo avevo detto che era una miniera di piccoli tesori.
- Cavolo! Bellissimo, guarda queste.

Una scatola che conteneva una manciata di pietre dure, aveva attratto la sua attenzione. Stendemmo a terra un plaid, solo un po’ meno impolverato del pavimento stesso. Ci sedemmo ad esaminare il cesto da pic-nic.

- Guarda Ale! Ci sono i piatti in ceramica! Sembrano quelli di mia nonna! Ed i bicchieri in vetro!
- Forse anche le posate in argento ed i tovaglioli di lino. Aspetta... eccole qui. Sarà di qualche antenato di nonna. Una volta i pic-nic erano una roba seria, mica come adesso con i piatti di plastica, i bicchieri di carta e i contenitori termici di Giò Style.
- Sarebbe bello organizzarne uno, giù in spiaggetta. Prepariamo le cose e le mangiamo là, apparecchiamo la tavola così! Bello, una cosa... di gran classe!
- Se vuoi lo portiamo giù e gli diamo una ripulita.
- Dai, perchè no.

Girammo un po’ tra scatoloni sigillati e bauli pieni di libri, alcuni vecchi ed altri più recenti. Album di foto, quadri, sculture di legno di foggia africana e altre in vetro soffiato, coloratissime e stilizzate, vecchi quaderni di scuola.

- Guarda questo! E’ un libro di velieri storici.
- Bello! A te piacciono molto le barche a vela vero?
- Abbastanza. E a te?
- Beh, non ci sono andata spesso. Un po’ i giorni scorsi con tuo papà e tua mamma... al mare un po’ in motoscafo.
- E ti sei divertita?
- Si, abbastanza. Mi porti con te un giorno?
- In barca?
- Si.
- Certo, se vuoi, ma anche io sto imparando, è il secondo anno che facciamo il corso. Non sono espertissimo. Poi abbiamo i Caravelle, sono delle chiatte, più che altro. Ci vorrebbe un bel catamarano...
- Fa niente, mi paicerebbe fare un giro, attraccare su una spiaggetta... io e te, tipo... l’hai visto Paradise?
- Nadia...

Le nostre bocche si cercavano, le lingue si intrecciavano ancora. Succedeva così, era una consuetudine, cominciata il giorno della lettera. Ogni volta che eravamo da soli cominciavamo a baciarci.

- Ale... ti devo chiedere una cosa...
- Cosa Nadine?
- Ma tu... io... quando baci me ti succede come quando baci la Robi?
- Nadia, ma che domanda è? Ti bacio perchè mi piaci, mica per pagare pegno o fare la penitenza di un gioco...
- No, lo so, cioè spero... io ti piaccio davvero?
- Ma si... certo.
- Cioè ti piaccio come la Robi?
- Nadine, ma cosa c’entra? Cosa ti viene in mente?
- A te piace la Robi, vero?
- Anche tu? Ma cosa vi siete messi in mente tutti quanti? Alain, tu...
- La Robi...
- Ascolta Nadine, tu mi piaci tanto, mi piacciono i tuoi occhi chiari, i tuoi capelli... mi piace stare insieme a te.
- Si, però la Robi ha già... cioè, sembra più grande, il seno... Quando mi baci ti faccio lo stesso effetto che ti fa lei?
- Scusa?!
- Hai capito, dai, ti faccio... “eccitare” anch’io? Come ti era successo l’altro giorno quando la baciavi?
- No! Cioè si, credo...ma cosa c’entra, è diverso... non è una penitenza di “obbligo o verità”
- Prova allora.
- Provo cosa?
- Baciami.

Le nostre lingue si intrecciarono nuovamente. Seduti sul plaid, appoggiati al vecchio baule, Nadia mi abbaracciava stretto e mi passava le dita sottili ed affusolate tra i capelli che portavo un po’ lunghi sul collo, mi carezzava il petto e ruotava decisa la lingua intorno alla mia. Ero pieno dei suoi profumi, la mela verde dei suoi capelli, la cannella del suo respiro, la fragranza quasi impercettibile di Gocce di Napoleon dierto le orecchie di cui le leccavo timidamente i lobi.
Le mia dita armeggiavano con i bottoni della sua camicetta di lino bianco. Riuscii a sfilargliela, lasciandola con un canottierina anch’essa bianca, sorretta da due spalline sottilissime.

- Ale... che fai?
- Beh, mi sa che sei riuscita ad “eccitarmi”...

Cercai di sfilarle anche la canottiera, Nadia si ritrasse.

- No.
- Perchè?
- Mi vergogno. Sono piatta, dai, non ho ancora il seno, non c’è niente lì sotto.
- Sei bellissima. Dai toglitela.

Mi sfilai anch’io la maglietta blu Op, stendendola sul baule, dove ero appoggiato. Nadia indugiò guardandomi. Ripresi a sfilarle la canottiera, questa volta senza incontrare resistenza. Mi sembrò bellissima. Due grossi capezzoli scuri spuntavano, appena lievemente protundenti, da un petto altrimenti piatto. La visione di quello spettacolo mi travolse. Mi chinai a succhiarli, a leccarli, estasiato. Mi facevano impazzire. Cento volte meglio delle grosse tette della grossa Francesca Caramelli, cento volte meglio delle tette gonfie fotografate su Gin Fizz o su Le Ore che il nostro compagno di classe Stewart collezionava e nascondeva dentro il sussidiario di Storia.

Alla luce tremula della candela Nadia ora mi sembrava una ninfa dei boschi, una creatura leggiadra, come quelle disegnate sul libro dei miti e delle leggende del Nord. Le nostre bocche ancora si univano, le accarezzavo le spalle, la schiena, il seno piccolissimo. La sua tensione iniziale sembrò addolcirsi, riprese ad accarezzarmi a sua volta i capelli ed il petto. Sentivo il mio giovane membro pulsare, costretto dagli slip e dal cotone pesante dei pantaloni multitasche Americanino. Accompagnai delicatamente una mano di Nadia sul mio sesso. Timidamente indugiò sulla protuberanza evidente.

- Allora ti eccito anch’io...
- Tanto
- Lo sai che non... non l’ho mai visto?
- Dai!?
- Beh, io non ho fratelli... i miei cuginetti sono ancora bambini...
- Già... e lo vorresti vedere?
- Beh... non so...
- ...
- Si...

Mi liberai dei pantaloni in un attimo, rimanendo con i soli slip in cotone, gonfi di eccitazione.

- Allora vuoi vederlo, davvero?
- Si
- Guardalo... dai.

Scostai l’elastico degli slip, lasciando libero il membro teso. Vedevo la curiosità di Nadia, il lieve imbarazzo e la sua eccitazione.

- Lo vuoi toccare?
- Non so... Ale...
- Dai toccalo, Nadine...

Le sue dita incerte mi sfiorarono, come in un tentativo di carezza. La guidai con la mia mano, facendoglielo invece impugnare, come lo tenevo io durante i momenti privati di autoerotismo chiuso in bagno.

- Così...piano
- Ale...
- Baciami Nadine, baciami e toccami così...

Ancora la mia lingua intorno alla sua, intorno ai suoi capezzoli, al suo collo, ai lobi delle sue orecchie. La sua mano impacciata che si muoveva a disagio sul mio pene. La accompagnai ancora, alla ricerca di un ritmo più deciso dei movimenti, poi la lasciai libera. Mi lasciai andare completamente, schizzando fiotti di seme caldo sui seni acerbi e sulla pancia, tenendole ben ferma stretta sotto la mia, la sua mano, che adesso sembrava voler ritrarre, quasi spaventata.

Fu stupendo, qusi un’estasi. Ho l’immagine nitida delle goccioline di seme che si rincorrevano scendendole dal petto verso l’ombelico, alla luce della fiamma. Nadia mi guardava con una espressione mista di spavento e confusione.

- Stai tranquilla, è tutto normale, Nadine... sei stata fantastica, lo sai?
- Allora è così... Sono tutta...bagnata, “appiccicosa”... ti è piaciuto?
- Tantissimo Nadine, vieni a baciarmi...

Ancora uniti in un bacio, le accarezzavo i seni e la pancia, con il deliberato intento di far assorbire alla sua pelle chiara il mio seme. Ci rivestimmo piano, pigri ed un po’ ammaccati per via delle posizioni scomode che avevamo assunto, e uscimmo dalla soffitta abbracciati, a pomeriggio inoltrato, portandoci dietro il cesto da pic-nic, dopo che, inutilmente, tra milioni di baci e carezze, avevo anche cercato di intrufolarmi con la mano nelle sue mutandine.

Credo che questo episodio abbia in qualche modo segnato in modo indelebile i miei gusti sessuali in materia di dimensioni del seno delle mie partners. Sarà un caso, forse, ma non ricordo di aver avuto mai una compagna con una taglia superiore alla terza. E anche nei miei rapporti successivi, in qualche modo, ho sempre cercato di ricreare quell’emozione visiva del mio seme che scende a rivoli tra i seni.

Ci eravamo appena seduti in cucina a sbocconcellare un Ciocorì quando Roberta fece irruzione, letteralmente, singhiozzando disperata. Nadia le fu subito accanto. Notai che era un po scompigliata, per la corsa forse, la maglietta con il collo a barchetta un po’ slabbrata, un segno rosso sotto la clavicola, sul decolleté.

- Che c’è che è successo?
- Che c’è Robi?
- Io.. Alain... no, vieni su che ti devo parlare...andiamo.

Mi lasciarono in cucina, solo, a domandarmi che accidenti fosse successo, ma il mio istinto mi annunciava nuvole nere che si addensavano all’orizzonte.

Venne fuori un mezzo casino. Anzi uno intero. L’unico che mantenne un certo equilbrio nella valutazione dei fatti e nel gestire la faccenda, fu mio padre Franco, il quale, sostenne che le cose si fanno comunque in due e che Alain, viste anche le recenti vicissitudini del divorzio dei suoi genitori, era probabilmente in un periodo di grande confusione. Mia madre Stefania, milanesissima, di estrazione borghese liberal, in gioventù tiepida militante femminista, bollò il povero Alain come un potenziale violento sciovinista, anche perchè molto amica della mamma di Roberta e con una conoscenza solo superficiale della famiglia sfasciata di Alain. Non lo rifiutò comunque, ma, da allora in poi, non perdeva occasione per impartigli lezioncine di etica, filosofia morale e norme di comportamento galante; si prodigava nel proporgli meticolosamente una regola di vita spiccia, mutuata un po’ a casaccio, da S. Francesco, Ghandi, Giovanni Della Casa e Simone De Beauvoir, con il piglio di una Margaret Thatcher.

Alain non parlò molto di questa storia, nemmeno con me. Riuscii a cavargli che si, aveva esagerato, ma che la Robi aveva esagerato anche lei. Si, le aveva strappato la maglietta per toccarle le tette, ma non capiva perchè fosse venuto fuori tutto quel pieno, e perchè lei si fosse così risentita, visto che lei da una settimana almeno, gli sparava due seghe al giorno, al mattino e alla sera. E che poi c’ero io e che, dopo quello che ci eravamo detti, si sentiva che in qualche modo doveva chiudere con la Robi.

Roberta invece, sostenne che Alain l’aveva quasi violentata. Mi raccontò tutto, una sera di fine Settembre, ancora tra le lacrime, sulla panchina sotto a casa sua. Si, stavano “quasi” insieme, a lei piaceva Alain, si avevano limonato, diverse volte. L’aveva anche toccato, così per curiosità, più che altro, una sola volta però. Quel giorno però sembrava impazzito, era anche arrogante e la stava già trattando male da quando erano usciti da casa mia. Non l’aveva neanche baciata e voleva farglielo toccare un’ altra volta. La voleva toccare lui, lì sotto anche. Lei gli aveva detto di piantarla, che non voleva, che non era il posto giusto, di smetterla, insomma. Lui era diventato violento, l’aveva buttata a terra, aveva cercato di metterglielo in mano e le aveva strappato la maglietta per toccarla lì sopra.

Qualcosa si era rotto. Cominciò la terza media. Roberta cominciò ad uscire con un Flavio sedicenne che aveva il Garelli Vip 4. Nadia la seguì in quella specie di compagnia dei “grandi” e noi le perdemmo di vista.

Alain ed io continuammo la nostra vita di amici e di studenti, io con risultati abbastanza brillanti ed un “ottimo” all’esame di stato, che mi fece guadagnare i banchi del Liceo Ginnasio Statale S******, lui con un “distinto”, in gran parte dovuto alla pazienza e perseveranza di mia madre Stefania, che lo sdoganò come new-entry al Liceo Scientifico Statale E******.

Tempus fugit. Faceva male prendere coscienza di quanto tempo era trascorso. Il motto per Alain, invece, l’avevo coniato io, stolen with pride, copiando quello della Fregata Sagittario, ed era: “non cohibetur sagitta”. Alain era così, irrefrenabile.
To be continued...