Mi fermai, per la centesima volta, a Le Jardin de Laura in Rue Felix Faure, uno dei negozi di artigianato provenzale più carini di Cannes. Non riuscii a trattenermi dall’acquistare un set di tovagliette e tovaglioli da colazione, anche guidato nella scelta da una nuova commessa, mai vista prima, ma molto charmant. Mi infilai, nella mia passeggiata, su per la salita di Rue Saint Antoine, nel cuore della città vecchia. Il centro era pieno di gente, per lo più turisti abbastanza attempati con provenienze nord europee ma riconobbi anche qualche famigliola tipicamente italiana. I tavolini sul marciapiede del Bar Le Saint Antoine erano strapieni. Mi lasciai il Manoir sulla destra e il nostro ristorantino preferito Le Gavroche sulla sinistra, continuando la salita.
Le Gavroche era una piccola perla della ristorazione in Cannes. Lo avevamo scoperto un sera per caso Alain ed io in una delle solite passeggiate downtown. Dopo qualche classica fregatura da turisti sprovveduti in giro per posti eccessivamente turistici della cittadina, eravamo molto poco propensi a farci spennare come polli per ottenere in cambio pesce congelato e dessert della Bindi (!). A parte le due escursioni alla Palme d’Or rigorosamente sponsorizzate dal Dottor Vanonì, sinceramente, il panorama gastronomico di Cannes, lasciava a desiderare per chi, come noi, non posteva permettersi abitualmente world top class restaurants. Era decisamente più gratificante comprare gli ingredienti sempre freschissimi al Forville o al Casinò Supermarchè sul Boulevard D’Alsace e dedicarci noi stessi alla preparazione. A me non dispiaceva pasticciare in cucina ed Alain era, tutto sommato, una buona forchetta.
Le Gavroche è un piccolo ristorante in Petit Rue Saint Antoine, con un pugno di tavolini stretti sul terrazzino ed ancora meno all’interno del locale stesso, occupato per lo più dalla cucina, anch’essa minuscola e dal bancone del bar. Quella sera ci accolse la signora Renate, moglie del magico Romaine Gay, Chef e proprietario. Ci fece accomodare con un sorriso accattivante in uno dei tavolini che guardano sulla grande Rue Saint Antoine che, alle nove di quella sera, sembrava, per densità di persone al metro quadro, una succursale della metropolitana di Tokio. Il foie gras con la salsa al rabarbaro, le conchiglie Saint-Jacques al forno con erbe provenzali, i gamberoni speziati con riso allo zafferano e una mousse au chocolat superba, ci fecero innamorare del posto. Renate, dopo il caffè, si sedette al nostro tavolo per raccogliere le nostre impressioni e omaggiarci di un ottimo Calvados Clos Minotte Pays d’Auge imbottigliato nel 1986. Al Gavroche tornavamo spesso, almeno una volta alla settimana, durante la nostra villeggiatura.
Il posto fu anche il set per un’altra avventura estiva veramente memorabile, di cui ci rendemmo protagonisti. Per questo anche, lo porto nel cuore. Settembre si avviava alla conclusione, così come le nostre vacanze. Credo fosse il 1996. Da lì a tre giorni saremmo rientrati nel grigio cittadino e nei soliti problemi di traffico e di lavoro. L’ultima settimana era sempre un po’... sospesa, la fine preannunciata del relax ci portava ad essere un po’ più eccessivi, in tutto. Quella sera eravamo già alla seconda bottiglia di rosso Chateau de Berne - Cotes de Provence Cuvee des Oliviers. Della prima avevamo commentato, ameni, la nota speziata di zenzero ed origano, il retrogusto di funghi freschi e more, l’ottimo melange degli uvaggi Grenache Carignan e Syrah. Avevamo davanti delle superbe costolette di agnello al timo e ci godevamo il passeggio, piuttosto contenuto in termini di affollamento. Già da inizio serata, non avevamo potuto non notare, data anche la reale prossimità fisica, le due signore che sedevano al tavolo di fianco. Due signore, sole, un’età approssimativa intorno ai quarantacinque. Ipergriffate sì, ma senza dare l’idea della salumiera in vacanza, che si mette addosso tutto quello che possiede, gioielleria di Bulgari inclusa, e che finisce per sembrare una matrona di Botero deambulante in versione kitsch. Queste erano un raro esempio di opulenza di classe. I tavoli erano disposti in un modo da far si che ci trovassimo praticamente fianco a fianco, ad una distanza di poco meno di un metro. Alain sedeva di fianco ad una donna molto magra, biondo slavato, dai lineamenti volitivi e gli occhi mobilissimi. Vestiva un completo giacca pantalone di lino bianco grezzo, leggero e trasparente, sabot Gucci, foulard e borsa a quadri tartan dai colori inconfondibilmente Burberry. Fumava una lunga sigaretta bruna, More, e sorseggiava champagne freddo dal flutè appannato. Conversava, ridendo, amabilmente, con l’altra commensale, che sedeva vicino a me. Questa era una donna un po’ più in forme, fasciata in un vestito aderente color tabacco con una scollatura non eccessiva che tuttavia metteva in risalto un paio di seni notevoli. Il decolletè era impreziosito da un solitario di una certa caratura. Bruna, capelli castani, leggermente sfumati sul rosso, un paio di occhiali dalla montatura trasparente. Una bella bocca tonda, dalle labbra piene. Parlavano un Inglese molto americano.
Difficile ignorarsi a vicenda, pressochè impossibile, date le reciproche posizioni. Già più volte, durante la cena, gli sguardi di tutti e quattro si erano intrecciati. Mezzi sorrisi, lievi imbarazzi, qualche commento delle signore circa il nostro aspetto che comprese un “pretty good looking guys” ed anche un “gorgeous”, ma credo, questo, riferito ai pettorali di Alain che si delineavano netti sotto la polo Ralph Lauren bianca. Dai, anche noi facevamo il nostro effetto, con una bella abbronzatura, in jeans e scarpe da barca. Un po’ gli emuli di Tom Selleck nelle prime serie di Magnum P.I., ci mancavano solo i baffi! Renate si prodigò molto discretamente nel farci rompere il ghiaccio, trattandoci deliberatamente con la familiarità elegante, riservata agli abituée. Il ghiaccio si ruppe definitivamente quando al loro tavolo arrivò una torta con le candeline e la dama in bianco attaccò un happy birthday insieme a Renate, seguita, per l’occasione, dal marito Romaine, uscito dalla cucina. La sua compagna fu piacevolmente sorpresa, evidentemente non si aspettava una festicciola così improvvisata. Ci volle poco perchè ci unissimo ai festeggiamenti ed Alain ordinò un’altra bottiglia di champagne. Amy Colligan e Vicky Hilliard erano due signore di Eastport, Maine, Stati Uniti. In vacanza. Di loro non dissero molto, erano in Francia per diporto, sole, il compleanno era quello di Amy. Quanti anni ho indovinatelo voi, ci disse, ma, ad onor del vero, non glielo avevamo proprio chiesto. Erano state già a Parigi, Saint Malo, Nantes, La Rochelle, Bordeaux, eccetera, eccetera, in pratica un “counter-clock-wise tour of the country”. Erano molto più interessate a quello che avevamo noi da dire, riguardo a noi stessi. Nella narrazione, un po’ addomesticata, arrivammo più o meno ai giorni nostri quando Renate portò in tavola “café e calvà” per tutti. Io, con la scusa di andare in bagno, approffittai anche per pagare il conto di tutti e quattro. Quando tornai al tavolo Alain si stava organizzando per il proseguimento della serata. Amy e Vicky avevano voglia di divertirsi un po’, magari andare a ballare o in un posto con un po’ di musica. Rimasero di stucco quando, dopo aver chiesto a Renate il conto, si sentirono rispondere che “these two gentleman were pleased to offer You the supper and I’ve been pleased to offer You the dessert”. Seguirono brevi proteste poco convinte ma vedevo lontano un miglio che il gesto le aveva impressionate positivamente.
Dopo vari “Au revoir” e “Bon nuit”, i “Merci, Merci” e i complimenti di rito per la splendida cena a Romaine, ci ritrovammo in strada con Vicky ed Amy, ansiose di volerci offrire almeno qualcosa da bere e di andare a ballare da qualche parte.
Un altro punto debole di Cannes sono i locali da ballo, le discoteche o i disco-pub. Personalmente in tutti questi anni non ne ho trovato uno degno di essere ricordato. Finimmo in una specie di pseudo festa cubana nei locali del Casinò, sulla Croisette. L’atmosfera era da night di terz’ordine, davvero. Gli ospiti, oltre a noi, erano un gruppo di canadesi sbarcati per la serata da una nave crociera, in buona parte asiatici, vestiti come venditori di auto di seconda mano di Detroit con le signore al seguito. La musica era decente ma i mojitos serviti tiepidi in bicchieri alti e stretti a quasi quindicimila lire, mi fecero veramente incazzare. La serata era sponsorizzata dal Rum Havana Club, ma tutto il rum che veniva servito al bar era un carta blanca abbastanza scadente. Ciò nonostante Amy e Vicky sembravano divertirsi come liceali al ballo della scuola, ci trascinavano con loro sulla pista, abbracciandoci in balli latini e hit internazionali o al bar, dove Vicky, almeno aveva già ordinato almeno tre intrugli diversi. Mi lasciò meta dell’ultimo, un tentativo di frozen margarita alla fragola imbevibile, almeno secondo i miei standard. Anche Alain dava segni di insofferenza.
Verso mezzanotte e mezza riuscimmo ad uscire dal locale, un po’ storditi, con Vicky al mio braccio e Amy aggrappata ad Alain. Le signore erano alloggiate al Le Mediteranée e ci offrimmo di accompagnarle a piedi verso la loro destinazione. Vicky mi teneva un braccio intorno alla vita ed io le cingevo il mio al collo, nella tipica posa delle coppiette. Parlavamo di frivolezze, lei già abbastanza brilla che perdeva il sabot e tornava indietro ridendo, tornando poi ad abbracciarmi. Ci fermavamo di tanto in tanto, ad aspettare Alain ed Amy. Come sempre Alain riusciva ad arrivare ad un grado maggiore di confidenza con le donne, sempre prima di me. Già due volte lo avevo sorpreso con la lingua nella bocca di Amy, abbracciati contro il muretto della passeggiata mare. A Vichy la cosa non era sfuggita.
- Don’t you like me?
- I do. Quite a lot.
- It doesn’t seem…
- What do you mean?
- …
- Should I kiss you too?
- This could help to raise my trust in your saying…
La guardai negli occhi, chiari e bellissimi. Adesso notavo sotto l’abbronzatura le lievi rughe intorno a questi. Le carezzai il viso. La trovavo bellissima. Mi mise le braccia intorno al collo e le nostre bocche si unirono. Sapeva di menta e tabacco. Il suo profumo mi avvolse. Noà di Cacharel. La sua lingua che mi sembrava sottile ed aguzza serpeggiava sulla mia. Il ghiaccio si era rotto del tutto.
Il bar dell’Hotel, le Portissol, era praticamente deserto, quasi giunto all’ora di chiusura. Prendemmo posto ad un tavolino. Ancora chiacchere frivole con un Alain in piena forma che raccontava aneddoti e storielle divertentissime. Ordinai un Laphroaig con acqua ghiacciata a parte, giusto per la compagnia. Amy e Vicky riuscirono finalmente ad avere un daiquiri come dio comandava e Alain volle ancora un calice di champagne. Eravamo tutti ancori molto gaii, sovraeccitati. Era buffo come tutti rimanessimo, pur nell’età della maturità, chi più chi meno, adolescenti senza speranze. Guardavo queste donne, che avrebbero potuto essere quasi le nostre madri, con i visi minacciati dalle prime rughe non più solo d’espressione, con le vene delle mani in rilievo, comportarsi come ragazzine al primo appuntamento. Forse qualcuno vive sempre con il bisogno di questi stimoli, di voler piacere, di essere apprezzato, di sentire l’adrenalina di un incontro, di viverne la preparazione, rifiutando di spegnersi in routines sterili o nell’abitudine di gesti consueti. Oramai Amy ed Alain non avevano più freni inibitori, il Portissol del resto era deserto, eccezion fatta che per il barman, intento alle pulizie del piano di lavoro. Si scambiavano pubbliche effusioni senza alcun ritegno. Poi, con una naturalezza disarmante, si alzarono, si congedarono e sparirono verso la hall, diretti senza alcun dubbio verso la camera di Amy. La conversazione subì uno stop forzato. Vicky ed io ci guardammo negli occhi, qualche secondo, con un po’ di imbarazzo reciproco. Fu poi lei a prendere l’iniziativa, si sporse verso di me sussurrando.
- Do you want to sleep with me?
- Yes…
- Come with me.
Lasciai il mio passaporto ad un concierge impegnato a battere tasti sulla tastiera di un computer, che mi dedicò solo una fuggevole occhiata, mentre riponeva il mio documento nella nicchia dalle quale aveva tolto la chiave della camera di Vicky. La camera era tutta giocata sui toni dei rossi e degli arancioni. Un letto king-size con un finto baldacchino, tende e copriletti con fantasie provenzali, arance e limoni, foglie d’olivo. Vichy sparì nel bagno, dicendomi che sarebbe stata di ritorno subito e di prendere qualcosa da bere dal frigo-bar. Presi un acqua minerale gasata. Sentivo scorrere l’acqua della doccia. Istintivamente mi annusai. Forse ne avevo bisogno anch’io? Mi tranquillizzai. Ancora le note fresche di Acqua di Giò rimanevano attaccate alla polo e alla pelle. Sintonizzai la radio dal telecomando del televisore, su una frequenza che trasmetteva musica classica. Finalmente Vichy riemerse dal bagno, con la pelle umida, avvolta in un asciugamano. Si sedette accanto a me sul letto, con un tubetto di crema idratante in mano.
- Can you help me?
- Sure.
Si sdraiò a pancia in giù sul letto, aprendo l’asciugamano. La sua magrezza colpiva. Aveva un bel corpo, comunque, asciutto e tonico. Una abbronzatura uniforme, interrotta solo da un triangolo più chiaro sulle natiche, il segno dello slip. Un bel culetto per una over quaranta, sodo e pieno. Cominciai a spalmarle la crema sulle spalle, sulla schiena. L’erezione non tardò a sopraggiungere. Le spalmavo la crema a due mani, sulle natiche, con movimenti rotatori opposti che, alternativamente, le scoprivano e coprivano la fessura rosea del sesso e l’area scura dell’ano. Il mio pene pulsava stretto nei boxer. Le gambe di Vicky erano lunghe ed affusolate , con una bella caviglia e delle dita dei piedi aggrazziate. Forse qualche chilo in più non avrebbe guastato, addolcendo un po’ le eccessive spigolosità. Vicky si voltò, mostrandomi due seni appena lievemente cadenti, dai capezzoli rosa e dalle grandi areole. La pelle della pancia lievemente cascante, sopra degli addominali tuttavia tonici e delineati. I peli del pube erano chiari, rasati in una strana foggia, a disegnare una specie di saetta. Le spalmai diligentemente la crema, sulle spalle, sui seni, sulla pancia, giù fino ai piedi. Si mise a sedere, sfilandomi la polo. Le nostre bocche ancora una dentro l’altra, la sua lingua serpentina che mi accarezzava il palato. Esplorai con un dito la cavità del suo sesso, soffermandomi a stuzzicarle il clitoride e penetrando nella vagina che mi parve stranamente stretta in una donna già matura. Percepivo l’abbondanza del suo umore, la sua crescente eccitazione. I suoi giri di lingua diventavano più veloci, il suo abbraccio più stretto. Accompagnava i movimenti del mio dito dentro di lei, spingendo il bacino contro la mia mano. La penetrai con due dita, emise un gemito e mi morse con forza il lobo dell’orecchio. La masturbai in questo modo per un paio di minuti fino a quande raggiunse l’orgasmo, stringendo la mia mano tra le cosce e inclinando la testa all’indietro, tirando la mia verso il suo collo. Crollammo sul letto, io sopra di lei. Mi liberai dei jeans e dei boxer, liberando la mia verga pulsante. Le leccai i seni, indugiando nel mordicchiarle i capezzoli e infilai la lingua nelle pieghe del suo sesso. Sapeva di pulito, un po’ asettica, un gusto di sapone. Con la solita tecnica alternai colpi di lingua a colpi di pollice sul clitoride, cosa la fece partire. Cercava di soffocare gli ansimi e i gemiti, senza troppo successo. Cercai di nuovo la sua bocca, sopra di lei. Data la posizione, naturalmente il mio pene stava infilandosi nella sua fessura baganata. Mi bloccò dolcemente, con una mano, rovistando con l’altra dentro ad cesto di pourpourri sul comodino. Tirò fuori la confezione argentea di un condom. Giusto. Mi infilai il preservativo e tornai sopra di lei. Accompagnò il mio pene dentro di lei, in quella fessura che continuava a sembrarmi tutto sommato stretta. La penetrai piano, continuando a baciarla, facendo scorrere il pene per tutta la sua lunghezza dentro e fuori, lentamente. Il ritmo aumentò, accompagnava i miei colpi ritmati con ansimi e rotazioni del bacino. Sembravano gli urletti della Seles quando colpiva la palla. Vicky teneva gli occhi chiusi e si mordeva il labbro inferiore. Continuai a penetrarla in questa posizione per quasi dieci minuti, senza riuscire a raggiungere l’orgasmo, insensibilità dovuta in gran parte all’amico di lattice. La girai di tergo, afferrandola per le natiche. Le infilai il pene gonfio affondandolo nella vagina tumida e bagnata. Vicky affondò la faccia nel cuscino, emettendo mugolii soffocati. La penetravo con forza, sudato, affondando ogni colpo. Vicky godeva di un orgasmo dietro l’altro. Le venni dentro dopo pochi minuti, crollandole addosso sfinito. Giacevamo sul letto uno accanto all’altra, scambiandoci carezze. Mi sfilai il preservativo pieno del mio seme. Feci per annodarlo, poi mi prese un’altra delle mie fissazioni alla quale non resistetti a dar segito, incurante delle conseguenze, alla peggio mi avrebbe buttato fuori.
- Close your eyes Vicky
- Why?
- Close your eyes...
Chiuse gli occhi.
- Eat me...
Le versai il contenuto del preservativo sulle labbra schiuse. Vicky si passò la lingua sulle labbra, raccogliendo parte del seme che le stava scivolando lungo il mento.
- Ah, my little piggy boy, you like this kind of things...
E si girò a baciarmi, mescolando la sua lingua con la mia. Mi addormentai, quasi di colpo, al suo fianco. La mattina fui svegliato dalla voce di una Vicky già vestita che accoglieva il carrello della colazione. Un solerte cameriere apparecchiò il tavolino sul terrazzino e si congedò.
- Take a shower, I’ll wait for you.
Lasciai scorrere l’acqua sulle spalle, sulla schiena. La sensazione di indolenzimento sparì. La giornata era splendida, un sole caldo ed un cielo azzurro terso mi accolsero nell’uscire sul balconcino e nel prendere posto di fronte a Vicky che mi sorrideva da dietro una copia dell’ Herald Tribune fresca di stampa e una nuvoletta di fumo azzurrognolo della More. Il profilo netto delle Esterel mountains si stagliava all’orizzonte. Caffè americano, succo di pompelmo e croissant caldi furono la nostra colazione. Mi parlò un po’ di sè, dei programmi suoi e di Amy per i prossimi giorni. Sarebbero partite l’indomani, oggi si sarebbero fermate al mare, avevano lettini ed ombrellone all’Okay Beach. Mi invitò a stare con loro per la giornata, ma declinai, avevamo già in progetto un giretto a Grasse. Ci salutammo. Continuava a sembrarmi bellissima. Glielo dissi. Il suo sorriso si allargò. Le chiesi un numero, un indirizzo, le lasciai il mio. Ma mi rispose di lasciar fare alla vita. La baciai sulla bocca, sulla soglia, a lungo, prima di non vederla mai più.
Alain mi aspettava nella hall. Narrandomi le performances atletiche sue e di Amy, con la solita dovizia di particolari scabrosi e ridacchiando, ci buttammo nel traffico di gente e veicoli del Boulevard Jean Hibert, diretti verso casa e verso la penultima vera giornata di vacanze.
Anche per quell’anno, il 1998, eravamo giunti quasi al termine delle vacanze, ma quell’anno il periodo estivo non si legò a nessun evento degno di essere ricordato. Continuammo con i nostri ritmi lenti, quasi “da pensionati”, la colazione, la spesa, il mare. Fu però l’ultimo anno di vacanze insieme a Cannes. Alain si trasferì a Parigi per lavoro l’anno successivo ed anch’io, nel gennaio del 1999 cambiai azienda, cosa che mi portò a fare il pendolare tra Milano e l’Olanda. Nonostante i tentativi di evitarlo, i giuramenti di non farlo, ci siamo, purtroppo, un po’ persi di vista. Here’s to you Billi & Alain.