Stamattina davvero ho realizzato che è primavera. Questo fine settimana tiro fuori gli stivali di gomma, gli attrezzi da giardinaggio e qualche semente e ci dedichiamo un po' al nuovo piccolo giardino. E' ancora incolto e spoglio. Dovremo sicuramente rivoltare tutta la terra di riporto che ci ha lasciato l'impresa edile, ammendarla con un po' di humus e sabbia, livellarla e cominciare a pensare cosa realizzare e come.
Ho adocchiato un bellissimo tosaerba della Honda, rosso Ferrari con gli inserti in Al anodizzato. Bellissimo. Sarà il prossimo acquisto di questa estate. Meg mi ha già spento gli entusiasmi: "beh, almeno aspetta che l'erba cresca". Intanto da Castorama ho comprato i mattoni in finto tufo per delimitare l'aiuola che ho in mente di realizzare a ridosso della rete di recinzione. Se il vicino non protesta ci faccio arrampicare more e lamponi.
Il gardening è un hobby bellissimo. Quando ero ragazzino, invece non la pensavo così e mi pesava parecchio. I miei abitavano in una casa con un giardino abbastanza grande e fittamente piantumato. I lavori di manutenzione e cura sembravano non avere mai fine. In primavera vangare l'orto e svuotare il compost, tagliare l'erba. In estate raccogliere gli aghi dei pini (altrimenti il terreno inacidisce troppo e l'erba non cresce bene) ed innaffiare. L'autunno raccogliere le foglie e portarle all'isola ecologica era una palla micidiale. In inverno le potature e la raccolta dei rami buoni per i camini e la triturazione di quelli troppo verdi o piccoli. Tutte queste allegre attività in cui il mio papà mi coinvolgeva, finivano per ritardare irrimediabilmente la mia partecipazione alle festicciole o ai ritrovi del Sabato pomeriggio o alle partitelle della Domenica.
Per fortuna non ero proprio solo. Il buon Teo condivideva con me le stesse sorti, vittima di un giardino ancora più grande. Eravamo due buffi dodicenni, precariamente in sella a grazielle modificate o - ancora più precariamente - a BMX troppo piccole, che si tiravano dietro un carrettino di legno su ruote pieno di erba rasata o aghi di pino, diretti all'isola ecologica.
Una volta, a causa della festa di compleanno di Daniela a cui non volevamo assolutamente arrivare in ritardo, combinammo, un po' per caso, uno dei più grossi disastri della nostra pre-adolescenza. Era un Luglio caldissimo, credo fosse il 1982 o 1983. Non pioveva da giorni. Appena rientrato da scuola, con ancora la pasta di traverso, mi fiondai in giardino per cominciare a raccogliere i famigerati aghetti. La festa cominciava alle 16:00, dovevo sbrigarmi. Anche Matteo aveva la rasatura del prato che gli pesava sul groppone. Avevamo stabilito che fosse quel che fosse alle 15:00 sarebbe passato da me col carrettino e che insieme ci saremmo poi recati all'isola ecologica (che per la verità a quei tempi si chiamava più prosaicamente discarica).
Avevo raccolto due sacchi neri dell'immondizia dei maledetti aghetti ed erano le 15:00. Ero sporco e sudato. Alle 15:15 scorgo la sagoma del Teo che imbocca la mia vietta (ai tempi era in ghiaia e la casa dei miei era l'ultima). Teo smadonnava come un Giuda e malediva il carretto con la ruota bucata.
Ora, il carretto era una roba artigianale, creato dal papà del Teo che, in settimana era un serioso dirigente della Manuli, ma, nei week-end, si trasformava in una specie di temibile Mc Gyver. Il carretto aveva un asse che teneva insieme due ruote di bicicletta e quattro pareti di compensato di cui una removibile, facendola scorrere nella guida. Il carretto era dotato di un lungo manico che terminava con una impugnatura rivestita con la manopola di un Garelli.
La gomma era bucata, il carretto sbandava e non era facile da controllare, in curva soprattutto. Ed era tardi. A metà strada tra casa mia e la discarica decidemmo di fermarci. L'area era un lotto di terreno in costruzione. A duecento metri già sorgevano le prime villette a schiera ormai terminate di un bianco abbagliante. Il terreno davanti a noi era coperto da una sterpaglia riarsa ed era evidentemente già utilizzato come deposito di materiali edili di scarto. L'idea di mollare tutto lì e buonanotte ci venne contemporaneamente. Alla fine non si trattava che di svuotare meno di un metro cubo di sterpaglie su un terreno incolto. Non era una grave infrazione! Ma l'ideona con risvolti drammatici venne al Teo, quando, svuotato il carretto, si rese conto che la montagna di aghi ed erba rasata era abbastanza ingombrante. "Va beh, Ale, gli diamo una bruciata". La fisica gli dava ragione, il rifiuto bruciato avrebbe sicuramente occupato meno spazio e dato meno nell'occhio. Detto fatto. La fiammella di uno svedese, il crepitio della fiamma che si divorava gli aghi di pino, il fumo dell'erba ancora umida. "C...o che fumera!". "Aspetta che gli dò una girata con il forcone..."
Insomma, in cinque minuti il fuoco era fuori controllo. La sterpaglia intorno stava rapidamente prendendo fuoco, insieme alle piccole cataste di rifiuti edili legnosi e plastici. "Teo, andiamo, qui viene fuori un casino", dissi abbastanza vigliaccamente. Ognuno si defilò verso casa "mas rapidamiente". Ma finita la doccia e uscito sotto il portico vedevo chiaramente una colonna di fumo impressionante levarsi in direzione del sorgente "Quartiere Robinie". Sentii anche, con una certa preoccupazione, seduto in auto, diretto alla festa di Daniela, le sirene dei pompieri che urlavano nell'aria. "Sarà il solito furbone che ha incendiato le sterpaglie" se ne venne fuori il mio papà.
I danni furono in effetti, per fortuna, limitati alle cose. Io ed il Teo, la sera successiva, in sella alle nostre bici, contemplammo la devastazione colposa di cui eravamo stati responsabili. Il campo era completamente bruciato e il lato nord delle villette a schiera in costruzione, da bianco abbagliante era ora completamente annerito. "Bella pirlata, eh?". "Eh, insomma, 'sta volta direi di si..."
Gioie e dolori del giardinaggio.
Statemi bene.
zespri
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