Wednesday, August 31, 2005


A private Cannes - part one

Da quando entrambi cominciammo a lavorare, dopo l’Università, Alain ed io abbiamo sempre preferito fare le vacanze in Settembre. Ci piaceva l’idea di partire quando quasi tutti rientravano, ci piaceva godere di un mare ancora caldo e per nulla affollato, di una cittadina che, smaltita la ressa dell’alta stagione, ritornava ai suoi ritmi più o meno normali.

Ad entrambi non dispiaceva, poi, restare in ufficio ad Agosto. Le attività erano ridotte al minimo per entrambi; Alain production planner in una multinazionale di microelettronica, io giovane buyer in una catena italiana della grande distribuzione. Senza colleghi e capi intorno, praticamente soli nei grandi uffici “open-space”, finivamo per cincischiarsi con e-mail cretine o passavamo il tempo a navigare in internet. Gli unici impegni erano quelli di rispondere al telefono, fare da back-up a qualche pezzo più grosso ed organizzarsi il lavoro di Ottobre. La sera non mancavano le occasioni per qualche cena o aperitivo nei non pochi locali aperti anche in città. E si aspettavano le vacanze.

Da qualche anno, eravamo soliti... villeggiare... si, “villeggiare” è la parola giusta, a Cannes. Alain, con padre francese, metteva volentieri a disposizione una seconda casa dotata di ogni comfort e, in quel periodo, non più occupata da nessuno.

Correva l’estate del 1998. Non correva molto in realtà. Ricordo che quell’anno, i nostri ritmi vacanzieri erano particolarmente lenti, quasi “da checche pensionate”, come, sfottendoci, dicevano molti degli amici che scendevano a trovarci nei week-end. In vacanza, da sempre, ci gestivamo spazi e tempi in quasi totale autonomia. I momenti comuni consolidati erano il pranzo e la cena, per il resto ciasuno di noi due seguiva il proprio mood. Alain amava svegliarsi più tardi, verso metà mattina; io verso le nove e trenta, avevo già consumato la mia colazione – solitamente un succo di arancia con croissant - in qualche Bistrot sulla Croisette o in Rue d’Antibes, leggendo il Corriere su qualche panchina del centro o della passeggiata a mare.

Spesso sedevo guardando i passanti. Per lo più anziani facoltosi che avevano scelto Cannes come “buen ritiro” o come meta fissa per le loro lunghe vacanze. Ancora belli, rassicuranti, eleganti, con fasci di stampa internazionale sotto il braccio, le pipe, le polo e le borse griffatissime, gli orologi gioiello. Simboli, divise, che raccontavano l’appartenenza ad un lignaggio sovranazionale. Inglesi, Francesi, Tedeschi, Americani, tutti si amalgamavano nei morbidi abbracci del cachemire estivo dei golfini allacciati sulle spalle, nelle nuvole di essenze discrete e costose, nello strusciare delle suole di gomma, delle scarpe da barca, sui ponti di teak. Nel tintinnare dei calici di champagne o dei cristalli dei cocktails alla frutta, consumati all’ora dell’aperitivo nei bar del Carlton o del Majestic Barriére o degli yacht multipiano ormeggiati al Port Pierre Canto o a quello di Palm Beach.
Notavo che questi personaggi raramente si spingevano, nelle loro passeggiate sul Boulevard Du Midi, oltre la Plage des Sports, dove Alain ed io affittavamo sdraio ed ombrellone regolarmente. Forse rispettando un confine non segnato, dove Cannes finisce e comincia La Bocca.

A me, invece, piaceva sedere sul muretto del lungo mare, vicino al sottopassaggio della ferrovia che porta sulla Avenue Doctor Pascal, una viuzza stretta che scende al mare, realmente sottodimensionata rispetto a ciò che uno si aspetterebbe da un’ Avenue. Dietro gli occhiali da sole, sfogliando il giornale con indolenza, godevo della vista del mare e delle anche troppo giovani studentesse del Collége International, che andavano e venivano, nelle ore di libertà, portandosi a spasso risate argentine, capelli sciolti e microcostumi che poco lasciavano all’immaginazione. Mi deliziavo nell’osservare, senza pudore, le rotondità dei glutei, la lieve protuberanza del sesso appena celata da minuscoli triangolini di stoffa colorata, le gambe, i seni, le labbra. Mi scoprivo indulgente nel formulare i miei giudizi mentali. Pensavo che forse stavo invecchiando – a ventisette anni! – ma queste teen-agers davvero mi sembravano tutte graziose. Un paio di occhi grigi languidi compensavano un sedere troppo largo, un paio di gambe affusolate nascondevano un naso eccessivamente pronunciato, due seni turgidi dai capezzoli impudichi facevano passare in secondo piano una vistosa acne al viso.

Il Collége International mi riportò alla mente un episodio di qualche tempo addietro. Il profilo delle isolette di Sainte-Marguerite e Saint-Honorat si confondeva nella foschia all’orizzonte.

Alcuni anni prima avevamo incontrato... no, in realtà eravamo stati letteralmente “rimorchiati” da un gruppo di ragazze Americane, quasi completamente sbronze al Morrison’s Pub in Rue Teisseire. Non era un posto che Alain ed io frequentassimo abitualmente. Le cose andarono più o meno così, anche se, a posteriori, le versioni mia e di Alain della vicenda non combaciavano mai completamente.

Quella sera, dopo una crepe volante alla Creperie Breton e un giro svogliato per le stradine intorno, il Pub ci si materializzò praticamente di fronte.

- Birretta?
- Va beh.

La Guinnes alla spina non era poi cattiva e la musica di una folk band locale, che eseguiva in rapida successione cover di vari gruppi, era pure passabile. Le ragazze, quattro o cinque, sedevano in un tavolo ad angolo ed erano già abbastanza brille e sicuramente molto giovani. Urletti, cori sui ritornelli delle canzoni, scherzi puerili con lanci di pop-corn e arachidi tostate nelle rispettive bevande. Lo staff del locale sorvegliava, paziente, limitando gli eccessi di tanto in tanto ma senza convinzione. Il locale non era affollatissimo, per lo più coppiette e gruppi sparsi, tutti formati da ragazzi ancora in età scolare.

Prendemmo posto in un tavolo appena di fianco alle ragazze. In un paio di minuti fummo coinvolti in una mini-battaglia a colpi di pop-corn subito interrrotta da un giovane cameriere che cominciava a dare segni di insofferenza. Risate, scuse, presentazioni, nuovo giro di ordinazioni. Alain ruppe gli indugi e subito attaccò bottone, in Francese, con una biondina dai capelli corti e la pelle chiara visibilmente arrossata dal sole. Non particolarmente bella, decisamente sovrappeso di almeno una decina di chili, tutti concentrati dalla vita in giù, ma con un delicato nasino all’insù e una bella bocca carnosa. La conversazione proseguì in Inglese, senza veri e propri argomenti. Qualche ovvietà sulla Francia, un paio di aneddoti dalla loro vita di studentesse, vaghezze e solite amenità da Italiani in vacanza da parte nostra. Dopo un ora e un paio di altre birre le distanze si erano decisamente accorciate, le mani delle varie Julia, Kitti, Mia e vattelapesca si posavano convinte sulle nostre cosce, quando ci rivolgevano la parola, le risate diventavano sguaiate e i visi si sfioravano parlandoci nelle orecchie.

- Billi, queste hanno voglia di cazzo.
- Si, ma sono un po’ minorenni, dai, sono cinque ragazzine...
- A me è venuta una certa voglia.

- What are you talking about?
- We were thinking about having a walk and maybe stop somewhere else to drink the last one “for the road”. What do say?
- Yeah, why don’t we go down to the sea?

La proposta veniva da Angie, una mora con i capelli lisci. Una abbronzatura dorata, uniforme, gli occhi scuri e profondi e le labbra sottili. Vestiva dei jeans chiari sdruciti sulle cosce ed una maglietta attillata nera, senza reggiseno.

Lasciammo il locale dopo pochi minuti, Alain abbracciato alla biondina e ad un’altra sua amica, castana e molto magra, io tra Angie e le altre due ragazzine, di cui confondo nomi e fisionomie, ma che non ricordo come particolarmente attarenti.

Percorremmo la Rue d’Antibes, giù fino al Palazzo Comunale. Anche le mie mani si erano fatte più audaci e si infilavano nelle tasche posteriori dei pantaloni delle mie amiche occasionali, cercando un sostegno, accarezzandone le forme. Le ragazze non sembravano minimamente turbate da questi strofinii e toccamenti, anzi, Angie mi imitò, infilando la sua mano nella tasca dei miei chinos Dockers. Un paio di volte mi palpò decisamente il gluteo, ammiccando.

Arrivammo all’altezza del Sofitel Le Mediteranée, all’angolo di Rue Dollfuss, per scoprire che le ragazze davvero erano ospiti del Collége International, che avevano diciassette anni, un orario di rientro da rispettare e che sarebbero ripartite da lì a due giorni. Scambiavo occhiate furtive con Alain che manteneva la sua eleganza di modi impeccabile ed il suo aplomb da raffinato gentleman, ma percepivo la sua eccitazione. Le ragazze non sembravano certo degli agnellini, somigliavano magari di più a delle porcelline, ma Alain aveva davvero lo sguardo della vecchia faina nel pollaio. Anch’io cominciavo a valutare positivamente questo insieme di fattori ed anche la mia eccitazione cresceva.

Percorrevamo ancora abbracciati il Boulvard du Midì quando Kitti, la biondina, volle fermarsi a comprare ancora un paio di birre da portare in spiaggia, si sciolse dall’abbraccio di Alain e si infilò in un bar. Ci fermammo tutti ad aspettarla ancora scherzando e giocando a rincorreci. Ricomparve dopo qualche minuto con un sacchetto pieno di lattine, ridendo Scendemmo al mare qualche decina di metri prima della Plages Des Sports. Ci togliemmo le scarpe e di corsa raggiungemmo la battigia. In spiaggia non c’era nessuno, a parte un cane che faceva correre un uomo, che se ne andò subito, spaventato dai nostri “Yaaauhuu!!” seguito a ruota dal suo bipede.

Alain si appartò quasi immediatamente con Kitti, della quale aveva già la lingua che gli esplorava la bocca. Angie mi guardava maliziosa. Mi trascinò poco distante, verso le sdraio e gli ombrelloni chiusi bianchi e blu dello stabilimento balneare. Le tre ragazze rimaste sole, stavano stappando altre birre, ridendo e fumando roba che la AIFS avrebbe sicuramente sconsigliato nelle sue buffe brochures.

Dal vicino bar giungevano le note di un pezzo degli Oasis. Angie accostò le labbra alle mie. Il suo respiro sapeva di birra e di chewing-gum alla fragola. La sua lingua sembrava fresca nella mia bocca.

Si liberò dal mio abbraccio e della sua maglietta attillata. Scoprì due seni piccoli e sodi. La lieve brezza fresca dal mare le inturgidiva i capezzoli. Presi i suoi seni tra le mani, le succhiai e le mordicchiai piano i capezzoli. Emise un gemito. Mi liberai della Lacoste bianca a mia volta, restando a torso nudo sulla sabbia fresca. Angie cercò di nuovo la mia bocca, la sua lingua ruotava veloce, i suoi respiri si facevano più corti. I suoi seni a punta si muovevano sul mio petto. Percepivo la sua eccitazione e lei la mia. Cominciò a roteare il bacino contro il mio, strofinandosi contro la protuberanza inequivocabile dei miei pantaloni. Le sganciai i bottoni dei jeans e cercai il suo sesso. Accarezzai una peluria rada. Il mio dito penetrò senza sforzo, aiutato dall’abbondanza del suo umore. Si liberò dei jeans e delle mutandine bianche che finirono nella sabbia poco più in là. Ancora bocche si cercano, lingue che si incrociano. La mia penetra nel suo sesso, tra le sue pieghe, stuzzico il clitoride con la lingua e con il pollice. Geme. Sa di buono questa ragazzina, di grano acerbo, di lievito di birra, di sidro. Non mi stancavo di leccarla, avido. L’orgasmo le giunge prorompente, soffoca un gemito, irrigidisce le cosce. Il suo succo mi riempie la bocca.

Si rialza, i capelli le cadono sulle spalle, sul seno. Gli occhi scuri sembravano brillare nel buio di una notte senza luna. Non diciamo nulla. Angie cerca ancora la mia bocca, le rotazioni della sua sua lingua ora si sono fatte più lente, più dolci, meno spasmodiche. La sua mano accarezza il mio sesso, cerca il bottone dei miei pantaloni, fa scorrere la cerniera a lampo. La aiuto, liberandomi dei pantaloni. I boxer elasticizzati a stento contengono la mia erezione. La sua mano fruga sotto il cotone, in cerca della mia verga. Mi gratifica con un “wow” a mezza voce. La sua mano stringeva il mio pene, come a volerlo soppesare, a volerne prendere consapevolezza. Con movimenti lenti comincia a masturbarmi, per nulla impacciata. La valutazione di Alain delle ragazzine si era rivelata esatta.

- I want you.
- I want you too. Do you have a condom?

Bella diretta la fanciulla. Non c’era che dire.

- I don’t think I have it here. I mean, I usually do not keep condoms in my pocket…
- Why not?

Come facevo adesso a spiegarle che a ventitre anni uno abita da solo, che ha relazioni più o meno stabili e che gestisce quelle occasionali consumandole comunque sotto il tetto di casa, che uno i preservativi se li tiene nel cassetto del comodino o in bagno tra i medicinali, che non se li porta in giro se no si scaldano e si usurano, insomma non si comporta come un... ragazzino. Ecco, appunto.

- Well, I wasn’t planning this...
- What this?
- This.

Le stringo la mano che indugiava sul mio sesso, incoraggiandola a riprendere il ritmo interrotto. Ancora la sua lingua che fruga il mio palato. Poi Angie si piegò su di me e sentii la sua lingua sfiorare la pelle del glande. Prima timida, come in una cauta esplorazione. Quello che assaggia le deve piacere, perchè, con più decisione, accoglie in bocca tutto il glande. Riprende i lenti movimenti con la mano, tenendo il mio pene in bocca. Di nuovo la sensazione di fresco della sua bocca, la inaspettata maestria della sua lingua. Anche la mia eccitazione è palpabile. In ginocchio sulla sabbia, accompagno i suoi movimenti, serrandole una mano sulla nuca. Adesso il ritmo si è fatto più incalzante, conduco io le danze, ad ogni colpo le infilo deciso il pene sempre più in fondo alla gola. Dai suoi “Mmmm” e “Ahnff” capisco che è in difficoltà, non respira bene, troppa foga.

Angie stacca la bocca da me ma non la mano.

- Take it easy. Lay down. I can’t manage like this.

Mi sdraio sulla sabbia ed Angie riprende a leccarmi lo scroto e a succhiarmi il glande. Sento l’orgasmo sopraggiungere immenso ed improvviso. Angie forse non realizza, o forse si, e la sua bocca si riempe di caldi fiotti del mio seme.

Questa volta è la mia bocca a cercare la sua, che adesso sa di mandorla verde e semolino tiepido. Angie si alza, nuda. Mi tende una mano. Gliela porgo e corriamo verso il mare.

L’acqua era nera e calma, tiepida. Ci lasciamo abbracciare dal mare. Le tre amiche non erano più dove le avevamo viste prima. Il sacchetto con le birre rimaste giace incustodito sulla spiaggia. Forse si sono stancate di aspettarci. Alain non si vede ancora. Dopo qualche bracciata usciamo dall’acqua. Angie ha un piccolo asciugamano in borsa che utilizza prima di rivestirsi. Io non ho nulla, faccio due saltelli per scrollarmi le gocce di dosso e mi ri-infilo la Lacoste, i pantaloni e le scarpe.

- Nooo!! You bastard, animal, fucking bastard!

Le grida di Kitti provengono da qualche parte dietro la veranda del complesso balneare. Insieme a quelle soffocate ed imperiose di Alain.

- Let me go, no nooo! I don’t want it! Let me go!! No! Noooo!
- Stai zitta puttana! Cazzo ti gridi troia!

Rumori di una breve colluttazione. Kitti seminuda che corre, inciampa, si rialza, corre sulla sabbia, piange, chiama le amiche. Prima di realizzare che cosa stesse succedendo, Alain è al mio fianco.

- Vai Billi, che qui è un casino.
- Ma che succede? Cosa è successo?

Angie a una trentina di metri da noi, sulla spiaggia, soccorre l’amica, accasciata per terra. Grida anche lei, adesso.

- You’re just a pig, a bastard!
- Bastard! You’re an animal! I’ll kill you!

Alain si riveste in un lampo.

- Vai Billi, poi ti spiego tutto. Hai tutto? Portafogli, documenti? Tutto?
- Si, Cristo! Ma che diavolo è successo?

Alain già correva, attraversando il Boulevard du Midì, infilando a tutta velocità l’ Avenue des Pines e sempre di corsa, attraversando l’ Avenue du Docteur Raymond, si infilava su per Beausite con me che lo tallonavo a qualche metro di distanza.

- Fortuna che ci facciamo 5 km al giorno di corsa, sennò sai che ridere... ma sei scemo? Mi dici che diavolo hai combinato?!

Dico ansimando e preoccupato, appoggiato al cancello di casa, con Alain che cerca frenetico le chiavi nelle troppe tasche del gilet tecnico.

- Secondo te? Perchè pensi che la troietta strillasse in quel modo? Certo che non l’ho violentata, che ti stai inventando? La fica ce l’aveva già spanata e quindi ho deciso che il culetto sarebbe stato più divertente. Ma la zoccoletta aveva da ridire. Però è stato più bello così, venirle dietro mentre cercava di divincolarsi.
- Tu non sei a posto. Guarda che qui finiamo dentro. Quelle sono minorenni. Americane! Col cazzo che non l’hai violentata! Come lo chiami tu? Cristo! Ci hanno visto almeno una trentina di persone stasera. Tu non sei a posto, Alain. Abbiamo lasciato tracce del nostro passaggio ovunque, le impronte sui bicchieri, sulle lattine, dovunque, cazzo! E tu, bel pirla, le hai anche lasciato la firma con svolazzo nel culo!

Raggiungemmo l’ingresso, attraversando il giardino, una macchia mediterranea, con i suoi ulivi e gli eucalipti profumati, che facevano da cornice ad una piccola piscina illuminata a forma di fagiolo.

- Adesso calmati Billi. Non esagerare. Non siamo mica due evasi in fuga, le mie impronte non sono in nessun archivio e non penso lo siano nemmeno le tue. Il mio DNA è il MIO DNA. Non è in nessun cazzo di data-base. Le zoccolette se ne andranno dopodomani con un bell’aereo che se le riporterà negli States felici e beate per la loro “oustanding thrilling holiday in France”. Queste parlano francese poco o un cazzo, sono ragazzette di famiglia ricca, viziate e perverse e non penso che si spingano fino all’andare alla Gendarmerie per raccontare... Che cosa? Che hanno accalappiato due tipi italiani in un bar e a lamentarsi perchè i suddetti glielo hanno messo nel culo? Poi tutta la trafila, il Consolato, l’interprete, la famiglia oltraggiata; queste le vacanze il prossimo anno se le fanno in qualche convento, altro che Cote D’Azure! Vedrai che le sue amiche sgualdrine le consiglieranno di metterci una bella pietra sopra. Un bel cazzo non era quello che cercavano? L’hanno trovato. Alla fine mica l’ho ammazzata, le ho solo ammaccato un po’ il culo flaccido, alla slandra. Stai calmo Billi. Adesso ascolta me. Domani ce ne stiamo un po’ rintanati, lontani dalla spiaggia e dal centro. Ce ne stiamo qui buoni buoni, con un bel libro e un bel gin-tonic a bordo vasca. Facciamole partire e dimentichiamoci l’incidente.
- Mah. Non so se filerà proprio tutto così liscio. Spero Alain, spero davvero. Sennò qua stavolta stiamo nella merda fino al collo.
- Te lo garantisco, Billy. Ti pare che mi vado a sputtatanare tutto per una sgualdrinetta?

Sulla terrazza sedemmo intorno al tavolo in cristallo e ferro battuto. Eravamo ancora un po’ scossi. Le cose avevano preso una piega inaspettata. Conoscevo questi tratti violenti della personalità di Alain ma questo episodio aveva superato un limite a me noto. Lo guardavavo negli occhi. Lo conoscevo da vent’anni.

- Hai fame Billi?
- Beh, un po’.
- In frigo c’è mezza bottiglia di Chablis e l’aragosta in gelatina che hai comprato ieri. Ce la siamo dimenticata. Ti va?
- Aggiudicato.
- Dai Billi, sorridi. Non ti preoccupare, fammi un bel sorriso.

Cenammo, quasi in silenzio, con una incantevole Cannes notturna sotto di noi e la brezza che ci portava il profumo del mare, dei pini marittimi e degli eucalipti dei boschi della Croix De Gardes, alle nostre spalle. Le cicale frinivano impazzite. La cicala e la formica. Era sempre stato un po’ così tra noi. Lui la cicala, io la formica.

To be continued...

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